L’ultima l’ha proposta il Regno Unito: una coalizione di Paesi europei pronti a mandare incrociatori, cacciabombardieri e soldati nello Stretto di Hormuz per proteggere la navigazione delle petroliere e impedire che l’Iran metta sequestri altre navi, com’è successo di recente al tanker inglese “Stena Impero”. Quella della coalizione militare è una fissa della cultura politica occidentale di questo inizio di terzo millennio. Con o senza la Nato, coperta o non coperta dall’egida dell’Onu, è spuntata nel 1991 nella Guerra del Golfo contro l’Iraq di Saddam, in Afghanistan nel 201 dopo la Torri Gemelle, in Iraq di nuovo contro Saddam nel 2003, in Libia contro Gheddafi nel 2011, in Siria contro l’Isis nel 2014, nello Yemen (sì, ci siamo anche noi con Usa, Francia, Regno Unito e Canada, e le bombe che partono dall’Italia) contro le tribù sciite nel 2015.
Ora, lasciamo da parte per un momento gli ideali e le ipocrisie, le balle della propaganda e i fatti concreti, le menzogne e le verità che ognuno di noi può rinvenire in tutti i casi citati. E pure i risultati. Resta il fatto che fare la guerra, usare le armi, menare le mani, ditelo come volete, è ormai una scelta abituale sul palcoscenico della politica internazionale e, di fatto, su qualunque scenario di crisi. Non è che ci possiamo raccontare che noi, mannò, il sangue che orrore, pace pace pace, la violenza giammai, no?
Allora la domanda è: perché non facciamo una bella coalizione militare per dare una mano alla Libia e salvare la vita a decine di migliaia di africani? A scanso di equivoci, proprio una cosa stile Afghanistan o Iraq: un sacco di militari, minacce, navi, aerei, legnate a chi fa finta di non capire, e poi magari migliaia e migliaia di peacekeeper dell’Onu (ma quelli con il mitra in mano) a custodire la calma raggiunta.
Perché non facciamo una bella coalizione militare per dare una mano alla Libia e salvare la vita a decine di migliaia di africani?
No? E perché, esattamente, no? Mettiamo in fila qualche dato. Secondo l’Unhcr, tra il 2015 e il 2018 sono annegate nel Mediterraneo 15.544 persone partite dalla Libia. Giusto un anno fa, il giornale inglese The Guardian pubblicò una lista con i nomi e i cognomi di 34.361 persone annegate nel Mediterraneo nei vent’anni precedenti. Sono cifre, lo dicono tutti, approssimate per difetto. È ragionevole avanzare una stima, per gli ultimi vent’anni, di 50mila morti. Le 150 persone morte poche ore fa al largo della Libia sono solo un esempio, forse appena più clamoroso, delle innumeri tragedie che si sono consumate tra le onde e di cui nemmeno si è parlato.
Ma la traversata via mare è solo l’ultima tappa del viaggio disperato dei migrati africani verso l’Europa. Gli esperti ci dicono che nei deserti prima della Libia muore di fatica, stenti e violenze circa il doppio delle persone che invece annegano. Arriviamo così a circa 150mila morti negli ultimi vent’anni. E secondo voi non varrebbe la pena di formare una bella coalition of the willing per intervenire in Libia e fermare questo inizio di genocidio? Gli Stati Uniti, con i soliti willing, invasero l’Afghanistan e poi l’Iraq per molto meno, i 3 mila morti degli attentati delle Torri Gemelle, dopo tutto. Anche perché abbiamo ormai capito che, a proposito di migranti e di Mediterraneo, le alternative sono piuttosto radicali: o proviamo a salvarli tutti, tipo Operazione “Mare Nostrum”, sapendo comunque che tutti non li salveremo; oppure li abbandoniamo alla roulette russa dei trafficanti di uomini, dei campi di concentramento, dei porti chiusi, della nave Ong che c’è e non c’è, del mercantile che vede quel che un altro mercantile ha finto di non vedere, del guardacoste libico da ungere, del gommone che non tiene. La motivazione umanitaria, quindi, proprio non manca.
Almeno per noi europei, la Libia non è un filino più decisiva dell’Afghanistan, dove solo l’Italia ha tenuto truppe per diciotto anni?
In più. È vero che la Libia è un caos ma cerchiamo di raccontarcela giusta. Nel caos c’è comunque un governo, presieduto da Fayez al-Sarraj, che è quello che è ma è stato comunque riconosciuto dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite. Tanto che il 14 marzo del 2016 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Usa, Russia, Cina, Francia e Regno Unito) ha invitato i 193 Stati membri dell’organizzazione a cessare qualunque forma di sostegno o di contatto con qualunque altro Governo o pseudo-Governo attivo in Libia.
Ora, sappiamo bene quel che succede in Libia. Il generale Haftar vuol buttar già Al-Sarraj e prendere il suo posto. E lo fa con la guerra, quella vera. Cannoni, bombe, morti. Intervenire con una bella coalizione militare e suonarle ad Haftar non sarebbe dunque battersi per la legalità internazionale? La democrazia? Il progresso? Siamo andati a cercarle ovunque nel mondo, queste ragioni. In Libia le abbiamo sotto gli occhi da anni e non facciamo nulla. Nulla. E poiché sono un radicale, aggiungo questo: sanzioni contro i Paesi che non rispettano la decisione del Consiglio di Sicurezza del 2016 e fanno comunella con Haftar. La Francia? Sanzioni. L’Arabia Saudita? Sanzioni. Gli Emirati Arabi Uniti? Sanzioni. L’Egitto? Sanzioni. La Russia? Sanzioni. Anche qui: abbiamo sanzioni per tutti, magari potremmo usarle anche quando serve.
Ma si dirà: eh, le ragioni strategiche, la geopolitica, le sfere d’influenza… Beh, in Libia c’è il petrolio, l’affaccio sul Mediterraneo, la posizione strategica sull’Africa, i rappporti (anche economici) con l’Europa, l’eredità storica. Non manca niente. Per dirla tutta: almeno per noi europei, la Libia non è un filino più decisiva dell’Afghanistan, dove solo l’Italia ha tenuto truppe per diciotto anni, ha speso 8 miliardi di dollari (gli Usa ne spendono 45 l’anno) e ha perso 53 soldati (la coalizione 3.096)?
Risulta quindi poco comprensibile perché l’Occidente non riesca a intraprendere, per salvare la Libia adesso, nemmeno la minima parte di ciò che fece nel 2011 per mandarla a ramengo. Perché l’Onu chiacchieri e basta. Perché la Nato non veda, su questo fronte, nemmeno un filino di rischio per la nostra cara civiltà occidentale. A meno di non rispondersi che siamo stronzi, irrimediabilmente stronzi. E che alla fin fine, dei migranti di cui tanto parliamo e nel cui nome convochiamo tanti summit, non ce ne frega niente.