II paradosso pare essere diventato il nuovo paradigma del futuro. Così chiediamo a gran voce una legislazione più protettiva in difesa della privacy e nel frattempo confessiamo senza pudore in rete i nostri fatti più intimi. Denunciamo la classe dirigente perché non meritevole e nel frattempo eleggiamo i più ignoranti su piazza. Insomma, sembra che abbiamo perso la bussola, incapaci come siamo di uscire dai paradossi che ci incatenano. Occorre passare da una cultura dell’aut… aut a una cultura che preveda costitutivamente l’et… et. Molto più facile a dirsi che a farsi. II volume presenta 25 paradossi che più di altri mostrano le contraddizioni sociali e gestionali in cui viviamo e ne ipotizza una possibile via di uscita.
Pubblichiamo un estratto de L’età del paradosso. Perché chiediamo tutto e il contrario di tutto nelle imprese e nella società (ed. Egea)
Un grande matematico, assai famoso, non prende mai l’aereo, perché ha calcolato la probabilità che su un volo ci sia una bomba e l’ha trovata troppo alta: non vuole rischiare la propria vita. La cosa è risaputa e quindi è grande la sorpresa di un collega che se lo ritrova accanto in aereo. Ovviamente gli chiede subito conto della sua fobia e soprattutto dei suoi calcoli. Il matematico, in tutta tranquillità, rivela di aver proseguito la sua ricerca, calcolando anche la probabilità che su uno stesso volo ci siano due bombe, «e questa è davvero trascurabile» confida con un ghigno al collega, mentre ammiccando indica il proprio bagaglio a mano sospettosamente rigonfio. «Allora siamo davvero in una botte di ferro» ammette un po’ sollevato il collega amico. «I tuoi calcoli mi avevano convinto e anch’io mi sono premunito diminuendo fortemente il rischio» ammette indicando un piccolo pacchetto che tiene stretto sotto il braccio. «Fantastico. La probabilità di tre bombe sullo stesso volo è tendente a zero…! Mettiamoci comodi!»
Questa barzelletta, attribuita indebitamente ad Einstein, indica in modo ironico la possibilità che anche menti acute e dotate di grandi conoscenze possano cadere nella più assoluta sconclusionatezza e assurdità. Siamo abituati a confondere la padronanza di cognizioni specifiche, anche di alto livello, con la capacità di metterle a fattor comune in un’organizzazione o più semplicemente nella vita pratica. Da questo punto di vista, il concetto di competenza è assai più utile. Per competenza si intende la piena capacità di orientarsi in un determinato campo. Ciò che una persona dimostra di saper fare (anche intellettualmente) in modo naturale ed efficace nel perseguire un dato obiettivo, in un dato ambito professionale o disciplinare. Il risultato pratico della competenza è la prestazione, la performance. In questo senso, i due statistici della barzelletta di Einstein hanno sicuramente grandi conoscenze, ma una competenza assai discutibile. I guai derivano invece, come abbiamo visto con il paradosso di Dunning e Kruger, dall’incapacità di riconoscere la propria incompetenza. Oppure dal credere che il semplice possesso di cognizioni teoriche possa significare da solo la capacità di svolgere determinati compiti. Di norma i percorsi formali di studio affastellano unicamente saperi teorici che poi dovranno trovare una loro più ampia applicazione in un ambito professionale. Solo l’esperienza potrà consentire loro un’esaustiva sistematizzazione e un’effettiva fruibilità della conoscenza.
Più concretamente, in questi anni le imprese di tutto il mondo hanno sviluppato progetti di «talent management». Con questo termine, negli ultimi anni abbiamo inteso circoscrivere tutti quei progetti rivolti a lavoratori particolarmente qualificati e/o di alto potenziale, nell’ottica di attrarre talenti, integrarli in azienda, svilupparne le competenze e consentire di sprigionare le loro doti in un processo di crescita. Con il tempo abbiamo assistito a una divaricazione nel modo di concepire il talent management. Per alcune aziende, tutte le persone hanno un talento che deve essere identificato e portato alla luce. In molte altre, invece, ci si rivolge solo a giovani risorse considerate di alto potenziale e con un iter di studio particolarmente qualificato, che poi sono state coinvolte in programmi di sviluppo professionale e manageriale accelerato fino a occupare velocemente posizioni di responsabilità all’interno delle imprese. Proviamo a fare due conti. Un laureato inizia mediamente a lavorare a 27 anni. Un dirigente viene nominato in media a 42 anni. Se la matematica non è un’opinione, tendenzialmente un laureato divenuto dirigente ha avuto a disposizione 15 anni di tempo per prepararsi. Molti anni fa, era difficile arrivarci prima dei cinquant’anni. Oggi se non si arriva alla posizione di «quadro» entro la quarantina è improbabile che ci si arrivi più tardi. I 45 anni sono in genere il limite massimo, ma solo nelle aziende più tradizionali, con un business più maturo. Analoga sorte per la dirigenza: in molte aziende la promozione a dirigente dopo i cinquant’anni, se non è vietata, poco ci manca. Con più di un problema: quel responsabile che malgrado le ottime performance non è arrivato alla posizione di quadro a 45 anni, poi avrà più di vent’anni di lavoro con la garanzia che ogni promozione gli sarà impedita, indipendentemente dalle sue performance. Come credete si potrà sentire?
Lo stesso discorso vale per il quadro che ha sfiorato la dirigenza ma non è riuscito a fare il salto a cinquant’anni: nella grande maggioranza dei casi, i suoi successivi 18 anni di lavoro non potranno prevedere un avanzamento di carriera, indipendentemente dal suo rendimento. Vi sembra una situazione motivante?! Quelle stesse persone costituiranno un «tappo» anche per la crescita dei loro collaboratori. Difficilmente li aiuteranno a crescere per poi vedersi superati nella scala gerarchica… Il talent management, in quest’accezione, nasconde una visione elitaria dell’impresa, causando nel tempo un’eccessiva focalizzazione su un gruppo ristretto di giovani ad alto potenziale e lasciando da parte la maggioranza dei lavoratori, i quadri intermedi, i professional, tutti coloro che assicurano la vita quotidiana dell’impresa, ma che in qualche modo sono considerati di serie B al confronto con i best performer. Molti giovani, in genere assai brillanti, sono stati rapidamente portati in posizioni di vertice, salvo poi provocare grandi disastri, o comunque repentini dietrofront. In una situazione di crisi e di contrazione della domanda questo errore viene pagato a caro prezzo. La capacità di gestire imprese richiede competenze di alto profilo, non solo contenuti tecnici ma anche grande esperienza.
A metà degli anni Novanta, personalmente ho assistito a un episodio che non scorderò mai. Ero a una riunione abbastanza affollata nell’ufficio del direttore generale di una grande azienda italiana delle telecomunicazioni. La società disponeva del prototipo di uno dei primi cellulari: erano molto ingombranti, pesanti e costosissimi (circa 8000 euro al valore attuale per più di cinque chili di strumentazione). A questa riunione erano presenti, tra gli altri, il presidente, il direttore commerciale, alcuni consulenti tra i più quotati del momento. Si doveva decidere cosa fare del brevetto per il cellulare. La tesi finale fu lapidaria: «Quale sarà mai il cliente che spenderà soldi per poter telefonare con uno di questi affari, quando se vuole fare una telefonata basta che si fermi in un posto qualsiasi e con un semplice gettone si può mettere in contatto con chiunque?! Perché mai si dovrà pagare molto di più per avere delle funzionalità già a disposizione con costi molto più bassi?! E volete mettere la scocciatura di essere sempre reperibile?! Così tu chiami quando vuoi e nessuno ti può disturbare. Pensate poi al costo delle bollette! Questa è una tecnologia senza futuro…». Così il brevetto fu venduto a un’azienda finlandese fino allora nota soltanto per i suoi televisori, e che da poco si era affacciata sul mondo delle telecomunicazioni. Ripensandoci oggi, quella decisione fu davvero un errore clamoroso. Eppure, venne presa dai migliori tecnici del nostro paese. Se queste sono le cantonate che si possono prendere pur avendo grandissima esperienza, cosa mai ci possiamo aspettare se puntiamo tutte le nostre possibilità su persone certo brillanti e di grande potenziale, ma con pochi anni di vita vissuta alle spalle?! Come ebbe a dire Isaac Asimov: «È facile essere saggi con il senno di poi». Al tempo, infatti, il ragionamento mi parve assolutamente logico: anch’io ero caduto in una clamorosa trappola.
Il punto è avere la capacità di ammetterlo e di fare tesoro dell’esperienza. Le buone decisioni, come già abbiamo visto, derivano dall’esperienza e l’esperienza deriva dalle cattive decisioni. La retorica di questi anni sul talento rischia invece di provocare danni molto seri. Leggiamo cosa scriveva in proposito un osservatore attento com’era il noto sociologo Luciano Gallino:
La finanziarizzazione delle imprese industriali ha avuto tra le sue conseguenze che al loro vertice arrivano sempre più spesso manager privi di qualsiasi competenza specifica nel settore di cui le prime si occupano, e però abili nel concepire e perseguire strategie finanziarie. Ammettiamo pure che, almeno per quanto riguarda i conglomerati di maggiori dimensioni, questi operano su molte linee di prodotto diverse tra loro, sì che nessuno potrebbe esser familiare con tutte. Nondimeno fa specie vedere manager che dal settore finanziario vanno a occupare posizioni di vertice in quello industriale; oppure, all’interno di questo, passano disinvoltamente dalle biotecnologie all’aerospaziale, dalle ferrovie al trasporto aereo, dalla siderurgia alle telecomunicazioni.
E ancora:
Un manager che si dimostri abile, o tale sia creduto, nell’applicare le strategie e le tattiche più idonee per far salire il corso delle azioni, e con esso il valore di mercato dell’impresa, è decisamente preferito dagli azionisti rispetto a un manager che invece è versato nelle complicazioni del relativo processo produttivo.
Fin qui nulla di male, purché il manager in questione non si arroghi il diritto di definire le strategie anche su un versante non finanziario, bensì tecnico. La sua competenza a quel punto si trasformerà irreparabilmente in incompetenza. L’esperienza di tutti i giorni di chi vive nelle imprese è punteggiata di persone abilissime sotto alcuni aspetti, che tuttavia si arrogano la competenza e l’esperienza necessaria per definire le direttive e le azioni da intraprendere anche in ambiti non propri. Tutti parlano della necessità di conoscere intimamente il business ma poi, appena ne hanno appreso i rudimenti, pretendono di insegnare cosa fare anche a chi in quel mondo ci è nato. Personalmente, ho ricoperto il ruolo di condirettore generale in una grande azienda dell’ICT e poi il presidente in una società di credito al consumo. Mentre scrivo presiedo una società specializzata nella mobilità internazionale. Tre settori di cui ho cercato di capire le logiche e le dinamiche di mercato ma di cui sono rimasto fondamentalmente un ignorante. Se qualcosa di buono ho fatto in questi tre ambiti, a favore di queste tre aziende, è dovuto al fatto che ho competenze gestionali (che ho cercato di esercitare al meglio), ma soprattutto all’aver rispettato il lavoro e la professionalità dei tecnici e degli esperti di settore. Il mio compito era cercare di assicurare loro il miglior assetto affinché la loro professionalità si potesse esprimere. Mai ho tentato di insegnare ad altri un mestiere che non conoscevo (e che fondamentalmente continuo a non conoscere). Questo non vuol essere un elogio dell’ignoranza ma, al contrario, un appello alla consapevolezza dei propri limiti e al rispetto e alla valorizzazione della competenza e del merito altrui. Molte volte chi siede più in basso sa più cose di chi siede più in alto: in molte imprese questo è ciò che avviene ogni giorno. Quando fui nominato dirigente, non dimenticherò mai ciò che il mio capo mi disse per l’occasione: «Se non sai fare una cosa non importa, la imparerai. C’è però una cosa fondamentale che devi assolutamente imparare subito e che dovrai sempre mettere in atto: non disturbare mai chi lavora davvero».