Cultural StereotypeMai una gioia nel 2019: persino quei geni dei Flaming Lips hanno sbagliato disco

In occasione dell'uscita del (deludente) “King’s Mouth”, ripercorriamo la carriera dei Flaming Lips. Una delle esperienze più assurde, fuori di testa, esaltanti e controverse della storia della musica pop

King’s Mouth (Bella Union) è il quindicesimo disco “fatto e finito” dei Flaming Lips. Lavoro che nasce da una installazione d’avanguardia di qualche anno fa in cui il pubblico di Oklahoma City (città natale della band) era chiamato a entrare dentro una enorme testa di metallo dove avrebbero quindi sentito quattordici minuti di sonorizzazione. Allungato il brodo a quaranta, ecco il disco. Onestamente, si tratta dell’ennesima trovata più interessante da leggere che da ascoltare, e conferma il ruolo ormai marginale dei Flaming Lips dentro l’economica collettiva della musica e della cultura contemporanea. Si tratta di canzoni che seguono il pattern di una psichedelia fluida che gioca con i generi (soprattutto il funk, il pop e l’ambient), li svuota e cerca di ricombinarli secondo una formula cui Wayne Coyne e soci sono ormai abituati. Per quanto stia raccogliendo buone recensioni un po’ ovunque, salutato anzi proprio come un ritorno a casa (forse anche per l’ovvio paragone con dischi veramente drammatici come The Terror del 2013 e Oczy Mlodly del 2017), la sensazione è ormai quella di una band tanto geniale quanto inconcludente, appassionata all’idea di strafare, di tirare fuori sempre l’idea strumentalmente più matta e sopra le righe per sorprendere così tanto che, alla fine, non si sorprende più nessuno. Ne deriva quindi una musica che sembra parlare solo a loro stessi e a pochi altri. Per lo meno sembrano divertirsi.

Un peccato, però, che la storia di una delle band più geniali, trasversali e incatalogabili della musica alternativa (quando questa parola ancora aveva un senso) sia finita così. Perché per un certo periodo i Flaming Lips sono stati qualcosa di grosso. Nati nel 1983 ad Oklahoma City, attorno alla personalità poliedrica di Wayne Coyne (artista, situazionista, musicista, sacerdote dell’assurdo ai tempi del mondo diventato racconto, profeta di un dadaismo pop cartooniano), i Flaming Lips hanno attraversato tre decenni di evoluzione musicale affrontando tutti i passaggi con una personalità così obliqua da rendere impossibile capire bene dove si stessero dirigendo (con l’ovvia conseguenza che alla fine forse non lo sanno nemmeno loro). Agli inizi strettamente underground, acidi, post-psichedelici di dischi come Hear it Is (1986), Oh My Gowd!!! (1987) e Telepathic Surgery (1989) segue una fase di ricerca nella materia primaria del pop, complice anche il passaggio alla Warner Brothers — caleidoscopio di influenze capace di mettere nel frullatore Beach Boys e kraut rock, Hüsker Dü e Pink Floyd — il cui vertice è rappresentato da Hit to the Death in the Future Head (1992) e soprattutto Transmission from the Satellite Heart (1993). In quel disco si trova infatti She Don’t Use Jelly, la “cosa” più vicina a una hit che i Flaming Lips abbiano mai avuto (fors’anche solo per la congiuntura storica per cui in quegli anni ogni band con una chitarra poteva ambire ad avere una canzone nella Top 40). Segue poi l’apertura alla magnificenza sinfonica del pop più ampio e ambizioso con due dischi molto rappresentativi e amati da chi adesso, ormai più vicino ai 40 che ai 30, ha scoperto i Flaming Lips come un antidoto all’ostinato realismo capitalista che si stava radicando dopo l’11 Settembre: The Soft Bulletin (1999) e Yoshimi Battles The Pink Robot (2002).

La sensazione è ormai quella di una band tanto geniale quanto inconcludente, appassionata all’idea di strafare, di tirare fuori sempre l’idea strumentalmente più matta e sopra le righe per sorprendere così tanto che, alla fine, non si sorprende più nessuno

Da qui in poi la situazione degenera progressivamente. Quasi come se fosse sempre più vittima del suo stesso personaggio, Wayne Coyne sembra condannarsi alla riscrittura perenne della band come più grande spettacolo del mondo. Un novello P.T. Barnum che alterna concerti — invero meravigliosi e divertentissimi — con pupazzi danzanti, enormi bolle di plastica con cui fare stage diving, coriandoli (a tonnellate!) e giochi di luce a tanto così da mandarti in crisi epilettica, a operazioni musicali sempre più stravaganti che ad una lettura favorevole potrebbero vedere un neo-situazionismo provocatorio (in fine dei conti è colpa di Wayne Coyne se è avvenuta la rivalutazione post-ironica di Miley Cyrus, con cui hanno collaborato per il disco del 2015 Miley Cyrus & Her Dead Petz), ma che forse si tratta semplicemente di riconfigurazione delle priorità a danno della musica.

Certo, bisogna dire che la vena di sperimentazione e follia i Flaming Lips l’hanno sempre avuta. Per questo nel bene e nel male gli si vuole molto bene. Ad esempio, mentre si stava aspettando di capire come avrebbero gestito il successo e la fama, a metà ’90, decidono di giocare sul ruolo dell’ascoltatore sempre più passivo e rimetterlo al centro di installazioni e vere e proprie provocazioni. È del 1996 infatti il Parking Lot Experiment, dove trenta automobili suonano trenta audiocassette con frammenti sonori diversi in cui quindi il suono cambia costantemente. Un preludio a Zaireeka, album del 1997 composto da 4 dischi incompleti da suonare su 4 diversi impianti audio, generando così un’esperienza d’ascolto straniante dovuta agli elementi di spazio (dove sono le fonti audio in casa tua?) e di tempo (ogni riproduzione non sarà mai a sincrono perfetto, ci saranno sempre elementi di scarto che generano straniamento). Solo per citare i più eclatanti.

A conti fatti si potrebbe vedere la parabola di Wayne Coyne come la metafora perfetta della musica che perde sempre più centralità nella costruzione dell’immaginario collettivo contemporaneo. Difficile credere che una persona come lui non sia consapevole del contesto storico e culturale in cui stiamo vivendo

Ascoltando a ritroso gli ultimi dischi, arrivando fino a At War With The Mystics (2006), si nota sempre di più la trasformazione di una band in quello che il critico musicale Stefano Solventi ha definito un “happening permanente”. Una carriera che prende infinite strade, che crea il multiverso di se stessa, cercando sempre l’effetto più weird (in senso fisheriano: cioè il montaggio di elementi diversi nello spazio e nel tempo per creare qualcosa di strutturalmente fuori posto) e le mescola al punto da non capire più cosa bisogna prendere sul serio e cosa no. Tra progetti paralleli (ad esempio gli Electric Würms in cui Coyne e il batterista Steven Drozd fanno kraut rock), dischi tributo senz’arte né parte (dedicati a The Dark Side of the Moon, 2011, e Sgt. Pepper’s con With a Little Help from my Fwiends del 2014), progetti autoprodotti one-shot da vedere come esperienze sonore psichedeliche a ruota libera (Peace Sword EP) quando non vere e proprie provocazioni (dal disco con Miley Cyrus) e i veri album che vanno nella “timeline” ufficiale, la cartografia dei Flaming Lips sembra disegnata da un computer comandato da un algoritmo impazzito.

A conti fatti si potrebbe vedere la parabola di Wayne Coyne come la metafora perfetta della musica che perde sempre più centralità nella costruzione dell’immaginario collettivo contemporaneo. Difficile credere che una persona come lui non sia consapevole del contesto storico e culturale in cui stiamo vivendo. Tra un mainstream sempre più massimizzato e che ha assorbito tutte le spinte dell’avanguardia e un underground che non è più capace di creare elementi di scarto e rottura; sospeso tra la nostalgia perenne per un passato che non tornerà più dipinto come un luogo mitico in cui si stava meglio, e la retromania per cui risulta difficile se non impossibile costruire traiettorie musicali in grado di proiettare l’immaginario nel futuro, il pop — inteso come forma d’arte aperta alla contaminazione, capace di mutare e evolversi e non perdere il suo potenziale comunicativo — sta attraversando un momento molto poco felice. Forse l’oggetto Flaming Lips, questo “happening permanente” sempre più ai margini e consapevolmente bloccato in una dimensione “altra” a fare musica sempre meno significativa (e questo King’s Mouth, al netto di qualche momento gradevole, non fa eccezione), ci spiega molte più cose su quello che è andato perso e che poteva essere, che non di quello che c’è.

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