C’è un’Italia misteriosa che pulsa da secoli dove Google Maps non la sa trovare. Un’Italia che impasta energie capaci di guarire corpi e anime, che ancora vibra di singulti di dolore e ricorda innocenti straziati o avvelenati. Non hanno potuto vivere e non si sono saziati della gloria degli eroi: eccoli diventare fantasmi, perennemente inchiodati a quel punto massimo di sofferenza in cui la loro più o meno umile vita si è persa. Giovani donne massacrate, lattanti sacrificati, amanti puniti con la morte. In Toscana ci sono castelli dove i lenzuoli respirano, dove se si accosta l’orecchio ai pomelli di un letto si possono ancora udire i tre ultimi battiti dell’aritmia fatale; nel Salento, paesi puniti da una cappa perenne di foschia. I luoghi del mistero ci portano sempre a interrogarci sull’altro paesaggio, quello intimo, del cuore, che non ha avuto ancora il suo Copernico a chiarirne definitivamente il moto.
Liguria, Portofino. Il Passo del Bacio e il raduno degli amanti.
Case coloratissime abbarbicate sulla roccia, rumore di barche, profumo di rose, ulivi e lecci, di mare e pineta. È stata meta di vacanzieri elegantissimi, viaggiatori in Ferrari cabrio o moto leggiadre, occasione di matrimoni e fidanzamenti fioriti. Ma a poca strada da Portofino, sull’omonimo Monte, ogni estate va in scena un altro tipo di amore, sotterraneo e celeste. In corrispondenza della festa di San Giovanni, all’incrocio tra quattro sentieri (per le Pietre Strette, per il Semaforo, per Ruta e per San Rocco), lì dove nessuno potrà più separarli, si radunano le anime di chi si è amato in vita ma è stato osteggiato dal destino. L’amore non vissuto aleggia silenzioso tra gli alberi di rovere e i pini marittimi, fino a riprendere forma in un risarcimento di intensità che vorrebbe spingere via l’alba e liberarsi dalla prigione del tempo.
Tra le anime amanti che si abbracciano sul Monte, di sicuro ci saranno anche quelle dei due ragazzi che hanno dato il nome a un passo del promontorio che da Portofino porta a Camogli. Il legame fortissimo non era bastato a convincere le famiglie della legittimità della loro unione. Così, intrecciando le dita, si erano arrampicati fino a dove, a picco sul mare, la roccia chiara e secca permette ancora oggi di camminare. E prima di morire, prima di lasciarsi andare a fondo nell’acqua sempre più scura che si chiudeva sopra di loro, eccoli stringersi in un abbraccio che vibrava di rabbia e disperazione e in un bacio al cui confronto il mare non ha sapore né spessore. Quel passo, oggi, è il Passo del Bacio.
In Toscana ci sono castelli dove i lenzuoli respirano, dove se si accosta l’orecchio ai pomelli di un letto si possono ancora udire i tre ultimi battiti dell’aritmia fatale; nel Salento, paesi puniti da una cappa perenne di foschiaq
Toscana, Forte dei Marmi e Pietrasanta. La bambina che canta e gli spettri del castello Malaspina.
Forte dei Marmi è a pochi chilometri di distanza, incalzato dalle trombe d’aria che vorrebbero farlo ridiventare palude e dai magnati russi, ma presidiato da bagnini che non permettono a nessun bambino capriccioso di disturbare i suoi tramonti sul mare. Qui a Pietrasanta, però, si pensa alle onde di marmo nascoste sotto i boschi delle Alpi Apuane. È un paese che conta più atelier che case, più artisti, veri o sedicenti, che abitanti. Uno strano alone a contorno di una piccola figura umana potrebbe far pensare all’evasione da una mostra di una scultura surrealista, se non fosse che a Villa Rigacci, nel 1700, ci furono la morte atroce di una bambina e il suicidio di sua madre. Una piccola figura umana che canta, verso le sei del mattino, con un alone intorno, è allora certamente un fantasma che ammonisce gli artisti a chiedere a se stessi un surplus di essenzialità e giustizia.
Alle spalle di Pietrasanta, i tornanti si perdono in chilometri di salite per boschi umidi e selvaggi. È lì che sorge il castello Malaspina di Fosdinovo, torrioni massicci a dominare e guardare i profili confusi dei questi Appennini che si chiamano Alpi. “Mala spina”, davvero. Per la piccola Bianca Maria Aloisa Malaspina, vissuta a metà del XIII secolo, nata albina, malata d’amore per il figlio dello stalliere, murata viva insieme a un cane (simbolo di fedeltà all’amato) e a un cinghiale (simbolo di ribellione) e immortalata nell’affresco spontaneo di una macchia di umidità sul soffitto della sala del trono. Per gli amanti dell’incontentabile marchesa Cristina Pallavicini (che resse il marchesato dal 1671 al 1691), scaraventati direttamente nella sala delle torture attraverso una botola. Per il marchese Ippolito, avvelenato dal fratello nel 1671. Le lenzuola del suo letto sono rimaste come sopraelevate e un tocco leggero coglie una specie di flusso d’aria, sotto, l’eco di un movimento costante. Così come l’orecchio appoggiato ai pomelli del letto intuisce i tre ultimi battiti del suo cuore, disperato nel parossismo dell’aritmia.
Campania, Rocca San Felice e Capri. I veleni di Mefite e gli amori dei faraglioni.
Nel corpo montuoso della Campania traspira l’alito della dea sannita Mefite, colei che sta tra la vita e la morte e punisce inesorabilmente i curiosi di quel confine. Guai a fare un passo in più verso gli sbuffi di zolfo velenoso che fanno ribollire le acque di un laghetto nei pressi di Rocca San Felice, individuato da Virgilio come uno degli accessi agli inferi. Perfino la natura gonfia e disabitata della verde Irpinia arretra e lascia deserta quell’area, che appare come una ferita grigia, impietrata. Potrebbe quasi essere un pianeta bruciato dalla lontananza dal Sole. E il cartello un po’ corroso che recita “Pericolo di morte” non sembra altro che la parafrasi moderna dell’iscrizione più perentoria e meno conosciuta del frontone del tempio di Delfi: “Nulla di troppo”.
Ma scendendo verso il mare e scivolando a Capri è il ‘troppo’ dell’esuberanza vitale a trionfare, tra sirene stese sui faraglioni, le rocce maestose che spuntano, ancora non si sa bene come, dal mare. Qui un tempo portavano le donne sterili a farsi medicare da energie di amore e di cura. Stendersi su quegli scogli si diceva permettesse di assorbire fertilità e buona fortuna, soprattutto a chi azzardava il passaggio per la grotta del Faraglione di Mezzo. Ma nell’ambiguità del mistero e del meraviglioso, che confina sempre con il tremendo, ecco di nuovo un brivido. La celeberrima Grotta Azzurra per secoli è stata conosciuta anche come Antro del Demonio. Da quando fu testimone della crudeltà dell’imperatore romano Tiberio, che si dice amasse nuotare lì con fanciulli e fanciulle nude, salvo poi far annegare chi gli risultava sgradito nei pressi della sua Villa Iovis. E ci sarebbe addirittura un luogo ancora più fosco: la Grotta Oscura. Chissà dove.
La celeberrima Grotta Azzurra per secoli è stata conosciuta anche come Antro del Demonio. Da quando fu testimone della crudeltà dell’imperatore romano Tiberio, che si dice amasse nuotare lì con fanciulli e fanciulle nude, salvo poi far annegare chi gli risultava sgradito
Puglia, Salento. Brucolachi, pipistrelli, ragni e lupi mannari.
Ingannevole è il tacco estremo d’Italia, con le sue acque verdazzurre, i fondali che si lasciano guardare senza filtri e spalancano le onde con innocenza, come non ci fosse nulla da nascondere. Il cuore del Salento è invece ripiegato e attento come le zampe di un ragno che aspetta la sua preda. Nei paesi dell’entroterra ci sono tracce di maghi (il celebre Matteo Tafuri, di cui a Soleto esiste ancora la casa) e anime che vagano per ripulire il proprio dolore (Oria, ‘la fumosa’, avvolta nella nebbia, parla della bellissima donna-fantasma, della madre della piccola di cui fu sacrificato il sangue per la costruzione delle sue mura e della giovane sposa suicida alla Torre del Salto). E poi vampiri, i Brucolachi, catturati in bassorilievi a forma di pipistrello scolpiti nei cimiteri. Sono persone maledette in vita per i loro peccati di opere o di omissioni, oppure colpevoli di aver mangiato carni di animali uccisi da lupi mannari. Aleggiano per i campi, le terre e i paesi predando energia vitale e condividono la notte con lo Scarcagnulu, folletto che talvolta indossa ciabattine rumorose, altre volte è fantasma che si siede pesantemente sopra il petto delle sue vittime assopite, come l’animale ghignante ritratto da Fussli.
San Pietro Vernotico e Galatina, invece, sono veri e propri luoghi di cura per il male dei tarantolati. Chi conosce la musica tradizionale pugliese non ci casca, ma in giro c’è qualcuno ancora convinto che esista un ragno, la Taranta, il cui morso precipita nella tristezza, costringe a letto, agita con convulsioni e fa sragionare le sue vittime. Oppure provoca dolori fortissimi in tutto il corpo. L’unico rimedio, dicevano i vecchi, era ballare. Ballare ballare, ballare fino allo sfinimento, fino a sputare fuori dal corpo il veleno che l’aveva corrotto. Solo a quel punto si poteva utilizzare l’acqua proveniente da uno dei santuari della zona e ringraziare San Paolo. Le crisi dei tarantolati si ripetevano ogni anno, così simili a quel mal di vivere che prende oggi forma di depressioni, crisi di panico, angosce, nevrosi, e cerca lenimento tra analisti e psichiatri, tra medicina ufficiale e le più sofisticate cure alternative.
Sardegna, Gallura. Le Tombe dei Giganti e le energie della Terra.
Non è solo Costa Smeralda e discoteche sulla spiaggia, resort a cinque stelle per veline, influencer e campioni del calcio ultratatuati. Millenni fa, in epoca nuragica, uomini sapienti di buio e silenzi avevano individuato alcuni punti tellurici ad alta energia. Nella zona della Gallura, ad Arzachena, così come a Palau, poco lontano da Porto Cervo, ma anche nel centro e nel sud dell’isola, si trovano ancora, sopravvissute a terremoti, guerre mondiali, progresso, invasioni, le Tombe dei Giganti. Sono costruzioni di pietra che qualcuno definisce “la Stonhenge italiana”. Edificate nel terzo millennio a.C., sono costituite da pietre conficcate nel terreno a riprodurre simbolicamente la forma delle corna di un toro. La stele più alta è quella centrale, da cui è possibile entrare tramite una piccola apertura. Poi, digradando, a destra e a sinistra, una serie di pietre mano a mano più piccole formano un semicerchio che abbraccia una porzione di terra. Oltre la stele maggiore, si stende un corridoio che conduce alle camere funerarie, dove le ossa dei defunti venivano sistemate dopo il rituale della scarnificazione. Le dimensioni delle Tombe dei Giganti di su Mont’e s’Abe sono clamorose: una stele di granito alta quattro metri e una camera sepolcrale lunga dieci, per una grandezza complessiva di ventotto metri di lunghezza per sei di larghezza. L’ipotesi secondo cui gli antichi sardi abbiano collocato queste costruzioni in corrispondenza di potenti canali energetici tellurici è avvalorata dalle leggende che raccontano le misteriose guarigioni di chi, ferito o ammalato, si è disteso sopra quelle rocce in punti particolari. Resta il mistero delle voci che dicono di ossa enormi trovate dai primi ricercatori.