Tutti gli uomini del presidenteJim Acosta, parla il giornalista più odiato da Trump: “L’attacco ai media? Una sceneggiata sfuggita di mano”

Parla in esclusiva a Linkiesta Jim Acosta, il corrispondente della Cnn alla Casa Bianca cacciato da Donald Trump per le sue domande scomode. Nel suo nuovo libro "Il nemico del popolo" uscito il 4 luglio (HarperCollins) racconta tutti i retroscena del presidente Usa

JIM WATSON / AFP

Donald Trump l‘ha definito il «nemico del popolo» prima di far sospendere il suo accredito alla Casa Bianca. La colpa di Jim Acosta, corrispondente della Cnn, era stata quella di aver fatto al presidente degli Stati Uniti una serie di domande incalzanti sul tema del giorno. Ovvero quello che dovrebbe fare ogni giornalista. Quel 7 novembre del 2018 Acosta chiese perché il governo avesse definito in modo esagerato una “invasione” l’arrivo verso il confine con gli Usa di alcuni gruppi di migranti provenienti dal Centro America. «È abbastanza, sei un maleducato, la Cnn si dovrebbe vergognare di te, riportate fake news» disse Trump senza rispondere alla domanda. Poi la portavoce della Casa Bianca, Sarah Huckabee, giustificò il ritiro dell’accredito accusando Acosta di aver messo le mani addosso alla stagista che aveva tentato di togliergli il microfono. Ma il video che ha fatto il giro del mondo provò che era una fake news, l’ennesima dell’amministrazione Trump e Acosta fu riammesso. Secondo un’analisi del Washington Post sono state almeno diecimila le dichiarazioni false o fuorvianti pronunciate da Trump nei primi due anni della sua presidenza. Anche per questo Acosta ha deciso di scrivere un libro sulla guerra personale tra il presidente degli Stati Uniti e la stampa. Nel saggio “Il nemico del popolo – Un momento pericoloso per dire la verità in America” uscito il 4 luglio in Italia per HarperCollins, Acosta racconta succosi retroscena del lavoro alla Casa Bianca e fa un’analisi implacabile delle tecniche di Trump per eludere le domande. «La neutralità per amore della neutralità in sé non ci serve a nulla nell’era di Trump», spiega Acosta in esclusiva a Linkiesta.

Acosta, perché la neutralità non serve nell’era Trump?
Ovviamente come giornalisti, dobbiamo sforzarci di essere il più equi possibile. Dobbiamo dare una buona impressione a tutti gli ascoltatori quando riportiamo una notizia. Ma non in tutti i casi. Per esempio quando ci sono suprematisti bianchi e neonazisti che marciano per le strade di Charlottesville, in Virginia, contro i manifestanti antirazzisti e dicono cose come: “Gli ebrei non ci rimpiazzeranno”. Lì c’è davvero poco spazio per la neutralità.

Trump disse che c’erano “Persone molto buone da entrambe le parti”.
Ha sbagliato. E noi come giornalisti dobbiamo farlo notare. Non siamo qui solo per raccontare le istanze di entrambe le parti in modo freddo e cinico. Dobbiamo difendere la verità. E la verità è che qui negli Stati Uniti c’è poco spazio per le opinioni dei suprematisti bianchi e dei nazisti. Non c’è posto per loro in una società perbene. Quando un presidente dice cose razziste, dobbiamo descriverle come razziste. Punto. Non possiamo tergiversare.

Però così Trump può definirvi “nemico del popolo” e accusarvi di essere partigiani.
Il presidente vuole che i cittadini ci percepiscano così. Fin dall’inizio ha voluto attirarci in questa narrazione. Nel libro riporto la mia intervista al suo ideologo Steve Bannon che mi disse: “Abbiamo deciso di rendere la stampa l’opposizione contro cui scagliarci perché i democratici non avevano realmente al potere nessuno a Washington quando Donald Trump è entrato in carica”. Per decenni c’è stata una tradizione, un certo modo di coprire mediaticamente l’attività del presidente degli Stati Uniti. Poi Trump è arrivato come un elefante in una cristalleria e ha squarciato il libro delle regole. Un certo tipo di presidente richiede un certo tipo di lavoro da parte dei giornalisti. Come sarebbe il mondo se non contestassimo alcune sue affermazioni così false?

Spesso però elude le vostre domande durante le conferenze stampa. Che tecnica usa?
Ha imparato l’arte dell’interruzione. Quando un giornalista pronuncia le prime cinque o sei parole della domanda il presidente lo interrompe. Così distoglie l’attenzione. Per questo motivo spesso lo affronto interrompendolo a mia volta: “Signor Presidente, non stai rispondendo alla domanda”. Non c’è davvero nessun altro modo di affrontare quel tipo di bullismo se non quello di alzarsi e mantenere la propria posizione mentre si sta tentando di porre una domanda legittima. Perché sennò Trump ti sovrasterà sempre perché risponde solo alle domande a cui gli fa comodo rispondere. Non alle domande scomode.

Nel tuo libro ammetti di metterti in mostra facendo un po’ di scena mentre fai una domanda. Non hai paura che il giornalista diventi la notizia?
No, ho sempre e solo cercato di porre domande difficili, ma legittime. Per esempio nel G20 di Osaka di inizio luglio ho chiesto perché fosse così accogliente e a suo agio con molti dittatori e autocrati. Non si può domandare una cosa così in modo freddo. E lui come sempre mi ha interrotto, questa volta citando il mio libro per delegittimarmi e sviare il discorso. Allora ho fatto una domanda molto seria e precisa: “Perché non ha fatto di più per criticare il governo saudita sulla morte di Kashoggi?”. Trump ha finito per rispondere alla domanda. Bisogna sfidarlo e mantenere la propria risolutezza, è l’unico modo per ottenere da lui risposte rivelatrici.

Per decenni il giornalismo americano è stato il cane da guardia del potere. I politici avevano paura di dire anche solo una parola fuori posto. Pensi che quella di Trump sia solo un’eccezione della storia o ha rotto una barriera culturale? Il prossimo presidente potrebbe essere ancora più politicamente scorretto.
In Italia e in altre parti d’Europa, molti politici stanno adottando lo stile di Trump ottenendo risultati notevoli. Guarda cosa è successo con la Brexit. Ma sembrano vittorie a breve termine Non abbiamo ancora visto il risultato finale di questo franchise neo nazionalista e ultra conservatore che il presidente ha messo in scena. A metà del 2018 le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti sono state un pesante contraccolpo per Trump. Il presidente ha fatto una campagna elettorale puntando sulla critica feroce all’immigrazione e l’attacco ai media. Ma ha perso il controllo del Congresso, ora in mano ai democratici. Ho parlato con gli strateghi repubblicani a Capitol Hill che mi hanno detto grattandosi la testa: “Speriamo la smetta con questa tattica”, perché sta alienando il voto di molte minoranze etniche negli stati chiave. E quegli elettori serviranno al Partito Repubblicano per vincere le elezioni del 2020. Siamo solo a metà del film sovranista. Manca ancora il finale.

L’attacco di Trump alla stampa è una sceneggiata. Il problema è che gli è sfuggita di mano e l’odio di questi anni è stato assorbito dalla sua base. Ho ricevuto migliaia di minacce di morte


Jim Acosta, corrispondente della Cnn alla Casa Bianca

E come finirà secondo te?
Per Donald Trump la strada per vincere le elezioni nel 2020 sarà in salita. Soprattutto se intenderà rifare lo stesso tipo di campagna elettorale del 2018. Non voglio fare previsioni perché pensavo avrebbe perso nel 2016. Nessuno pensava che avrebbe vinto. I democratici sono preoccupati per la questione delle circoscrizioni elettorali. Hanno visto come Trump è riuscito a conquistare gli elettori nel Midwest negli Stati chiave. La sfida sarà tutta lì. Ho parlato con persone all’interno del comitato elettorale di Trump. Credono di poter perdere di nuovo il voto popolare ma di vincere la sfida nei collegi, come nel 2016. E a loro va benissimo. Certo, sarebbe una pillola piuttosto dura da ingoiare per molti americani vedere il presidente degli Stati Uniti eletto ancora una volta con meno voti rispetto al suo avversario. Ma è una possibilità concreta.

Nel libro citi una conferenza stampa del febbraio 2017 in cui Trump disse che riportavi “fake news” dopo una tua domanda sull’interferenza dei russi nella campagna elettorale. Poco dopo un suo collaboratore ti chiamò per dirti che il presidente in realtà si complimentava con te per la domanda. Trump ci sta trollando tutti?
Da quel momento ho capito che la sua è tutta una sceneggiata, il problema è che gli è sfuggita di mano. L’ostilità che Trump ha alimentato in questi anni contro i media non è più addomesticabile. Ed è stata assorbita da molti suoi sostenitori. Noi giornalisti ci sentiamo minacciati da anni, ma non siamo i soli. Guarda cosa sta succedendo alle quattro deputate del Congresso che Trump ha attaccato nelle ultime settimane. Hanno subìto migliaia di minacce di morte. Ora capiscono cosa noi giornalisti abbiamo vissuto negli ultimi anni. Non ho mai visto una cosa del genere negli Stati Uniti in tutta la mia vita. In Europa c’è stata una cosa del genere nel passato, ma è un’esperienza nuova per questo Paese. Il nostro dovere è denunciare questo atteggiamento, non possiamo essere timidi.

Hai ricevuto minacce di morte dopo lo scontro con Trump?
Migliaia. I miei account sui social media sono diventati delle fogne a cielo aperto piene di parole volgari, insulti e minacce di morte. Non so se siano state generate da una manciata di persone o da moltitudini. Difficile dirlo vista la natura anonima e invisibile dei troll nei social media. Trump ci attacca per eccitare i più bassi istinti della sua base elettorale e i suoi sostenitori più accaniti accumulao rabbia e ostilità. È una specie di forza instabile e imprevedibile che nessuno può controllare. Né il presidente, né la società, né i social network. E non sappiamo se un giorno porterà a qualcosa di terribile in questo paese. Speriamo che un membro del Congresso o un giornalista non venga ferito o ucciso a causa della retorica ostile. Sarebbe una grande sconfitta per gli Stati Uniti.

Cosa è cambiato davvero nel lavoro quotidiano alla Casa Bianca con l’arrivo di Trump? Che differenza c’è rispetto al lavoro con Obama?
Con Trump è morto il briefing con la stampa. In tutto il mondo erano abituati a vedere in televisione l’uomo più potente del mondo o un suo portavoce rispondere in modo più o meno pronto alle domande dei giornalisti. E ogni tanto era possibile ottenere una piccola notizia. Succedeva spesso durante l’amministrazione Obama. Quasi ogni giorno c’era un briefing.

Poi cos’è cambiato?
Quando Sean Spicer è diventato il capo della comunicazione di Trump, le conferenze stampa sono diventate un palcoscenico in cui ogni giorno si dovevano difendere le fake news del presidente. Alla Casa Bianca se ne sono accorti e per evitare lo stillicidio hanno abolito il briefing. Ora ci rimangono due opzioni: o Donald Trump che parla occasionalmente con i giornalisti prima di salire su un elicottero o dei brevi incontri con la nuova responsabile della comunicazione, Kellyanne Conway, che parla con i giornalisti nel vialetto di fronte alla Casa Bianca e spesso ci insulta. È uno sviluppo molto inquietante perché i cittadini americani gli pagano lo stipendio anche per informarli.

Qual è il problema principale di non avere regolari conferenze stampa?
Diventa più difficile ottenere una risposta chiara in video. Il presidente ha il controllo totale della situazione. Decide lui come e quando può comunicare. Questo ha costretto molti di noi a parlare in privato con i funzionari che non possono dire la verità in pubblico. E quindi dobbiamo riportare le loro dichiarazioni, sotto anonimato. È un danno per il cittadino a casa perché preferirebbe sentire dal vivo le informazioni sapendo il nome e il cognome del funzionario, così sa a chi attribuire la responsabilità di ciò che apprende.

Com’è Trump diretro le quinte, a microfoni e telecamere spenti?
Ho avuto pochissime opportunità di parlare solo con lui in privato. Può essere affascinante e divertente. Molti miei colleghi potrebbero confermarlo. Ma sai, chiunque può essere così in privato. L’importante è come ti poni in pubblico. Il presidente degli Stati Uniti dovrebbe essere allo stesso modo in privato come in pubblico. Il popolo americano si aspetta una forza che unisca e non divida. Mentre Trump è il presidente più divisivo che abbiamo avuto nella storia della nostra nazione. Tra un anno la scelta sarà se dare altri quattro anni di mandato a una figura così divisiva.

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