Il bastone. Sorpresa: il vero fenomeno è Italo Calvino. Tra i trenta libri più letti della settimana, tre sono suoi. La scure degli insegnanti falcia le voglie letterarie degli studenti: l’estate si fa, da decenni, all’ombra di Calvino. Ciò che – per obbligo – devono leggere gli studenti di oggi è ciò che ho letto anche io – ma alle medie – decenni fa e la generazione prima di me, pure. I partiti s’inabissano nella lotteria delle promesse inattuate, le ideologie sono sfumate in un gargarismo – è tornata in auge, un secolo dopo la formazione dei fasci, la parola ‘fascista’, in zone erogene del tutto inattuali – mentre Italo Calvino resiste, inscalfibile, intoccabile, indimenticabile, come Garibaldi, Pertini, Andreotti, il Ferrero Rocher. Senza lacerare il marmo né invitare a diatribe rétro – vent’anni fa Carla Benedetti uscì con un pamphlet di cui si discusse per un tot, Pasolini contro Calvino – allineo una serie di considerazioni, appurate da altri prima di me.
Continuiamo a far leggere il libro più brutto di Calvino. Il libro più venduto di Calvino è Il sentiero dei nidi di ragno. Il primo. Il più brutto. Non lo dico io. Scartato al Premio Mondadori (“il romanzo che Calvino finisce appena in tempo per la scadenza… non piacerà né a Giansiro Ferrata né a Vittorini e non entra nella rosa dei vincitori” scrive Andrea Dini nell’informatissimo Il Premio Nazionale “Riccione” 1947 e Italo Calvino, 2007), il manoscritto di Calvino, con il supporto di Elio Vittorini – roso dal senso di colpa –, ‘deve’ vincere il neonato Premio Riccione, alloro di serie B. Anche lì, il romanzo non convince. Tra i giurati, Romano Bilenchi dice no, Cesare Zavattini nì, Sibilla Aleramo, presidentessa di giuria nicchia, “è quanto di meno peggio mandato al concorso…”, Mario Luzi è il più convinto, pur con pudore (“Non manca qualcosa di buono… ma il racconto risulta un po’ immobile”). Il romanzo è tanto imbarazzante che la giuria gli affianca, ex aequo, Morte in piazza di Fabrizio Onofri, che non sarà mai pubblicato (dopo secco rifiuto Einaudi). La stampa di partito esulta: “Calvino e Onofri sono tutt’e due comunisti, tutt’e due giovani e già noti”, scrive un cronista de Il Progresso d’Italia. In ogni caso, Einaudi spinge “Il sentiero”. Che vende. Ma è bocciato dalla critica: “Il libro è diseguale, nell’alternarsi di un lirismo affannoso e di un realismo dialettale o documentario”, scrive Franco Fortini su Avanti! Più feroce Enzo Giachino, che dal pulpito di Mondo nuovo firma una stroncatura senza appello: “ci si chiede se la retorica adottata dall’autore non sia una presa di posizione politica, un tipo di propaganda… che troppo spesso paion ricalcare gli schemi dei raccontini educativi di Cuore”. Insomma, continuiamo a leggere il libro di Calvino che non è mai piaciuto a nessuno.
Calvino, tipico atteggiamento da ‘minore’ in trono, ama fare il protettore dei minori, cioè di chi non può corrodere la sua ombra
Calvino, un “minore” di talento. Che scoperta: nessuno osa discutere il talento di Calvino. Tra i suoi libri, preferisco Le città invisibili. Del ‘canone’ italico, però, egli non è né lo zenit né il fuoco centrale. L’arte combinatoria, la letteratura come cubo di Rubik o litografia di Escher, il Medioevo postmoderno, l’imitazione degli stili, ha dato luogo a una letteratura esangue, avvitata all’avvilimento, avviata al tramonto, cartesiana, geometricamente dimostrata, claustrofobica. Per capirci – perché così si fa, l’arte critica è il privilegio della crudeltà – Se una notte d’inverno un viaggiatore non è Finzioni e Calvino non vale la palpebra di Borges; Le Cosmicomiche e Ti con zero non hanno la bile da giocatore di biliardo verbale di Georges Perec o di Raymond Queneau; Il castello dei destini incrociati non possiede l’incanto ipnotico dei racconti di Julio Cortázar (perché non far leggere quelli agli studenti nostri?). Riguardo alla trilogia de “I nostri antenati” (Il barone rampante e Il cavaliere inesistente rombano in classifica) è giusto ciò che scrisse, ‘sul pezzo’, Fabrizio Saccomanni, sapiente lettore prima di darsi alla carriera – più redditizia – di economista, banchiere e Ministro (per un lampo, sotto Letta). Nella rivista “Satori”, stampata da Mario Guaraldi, era il 1962, il futuro Ministro firma un articolo dal titolo dirompente – Evoluzione o involuzione di Calvino? – in cui sfotteva un poco “la figura di uno scrittore entertainer autore di divertissements intellettuali per persone di una certa levatura non dico mentale, ma salottiera”, insomma, un giullare di corte. “Se così fosse”, terminava l’articolista, “non ci sarebbe che dire una prece sulla tomba dello scrittore Calvino e tanti saluti”. Tanti saluti, appunto.
Il mito di Calvino all’Einaudi: ha bocciato quelli più bravi di lui. In Controstoria dell’editoria italiana attraverso i rifiuti dal 1925 a oggi (Bruno Mondadori, 2012), Gian Carlo Ferretti minimizza il mito di Calvino segugio di giganti in Einaudi. Tre i calorosi rifiuti di Calvino: Memoriale di Paolo Volponi, Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori, La scoperta dell’alfabeto di Luigi Malerba. Tre libri troppo ‘libri’, cioè liberi da infingimenti retorici. “Dalla morte di Vittorini in poi Calvino mostrò una crescente sordità per la letteratura italiana contemporanea”, conclude Ferretti. Piuttosto, Calvino, tipico atteggiamento da ‘minore’ in trono, ama fare il protettore dei minori, cioè di chi non può corrodere la sua ombra. Così, riscopre due autori – per altro geniali, più di Calvino! – come Tommaso Landolfi e Giorgio Manganelli (“tipico scrittore eccentrico”), d’altronde, dice lui, “la letteratura italiana è fatta più di figure di eccentrici, di figure marginali, che di figure centrali” (in una intervista su Contemporary Literature, era il 1985). Cioè, è cresciuta zoppa, monca, sfigata.
L’intellettuale che faceva finta di essere stupido. Calvino conosce l’arte di celarsi dietro alle buone parole di pessimo conio. Il contrario di Pier Paolo Pasolini. Calvino non è un intellettuale ‘in prima linea’, un Lancillotto del pensiero; sta nelle retrovie, guarda, cova, bada a costruirsi una ‘posizione’ nello scacchiere letterario. Un buon metro per misurare la sagacia pretesca di Calvino sono le “Interviste 1951-1985”, pubblicate da Mondadori nel 2002 come Sono nato in America… Non c’è frase fuori posto, Calvino è uno stratega della piaggeria. Se gli domandano – è Enzo Siciliano, su La Stampa, nel 1974 – cosa pensa della politica italiana, lui fa “Difficile rispondere qualcosa d’originale”, e poi “La regola generale è sempre stata di vivere alla giornata, di non guardare mai al di là – a dir tanto – delle prossime elezioni”, d’altronde, “Il mondo diventa sempre più ingovernabile”. Le uniche ammissioni di fede, in dialoghi ondivaghi e mesti, riguardano il dubbio (“Dubito sempre di più. Anzi credo che il dubbio sia l’unica cosa che uno scrittore può insegnare”) e una astratta virtù – calvinista – al sacrificio (“credo che la vita vada continuamente giustificata, e credo che non sia giusto pretendere senza dare”). Insomma, piccole cose di buon gusto. Guai, però, a prendere Calvino per cretino. Enrico Emanuelli, giornalista e scrittore di platino, firmando la recensione al Sentiero dei nidi di ragno su L’Europeo (giudizio: “una trovata così sentimentaloide da sembrare retorica”), aveva già capito il soggetto: “Gli amici dicono di lui: ‘È uno che sa e che ottiene quello che vuole’. Abbandonando il suo tono amichevole e passando a quello maligno, qualcuno con brevità dice: ‘sa fare bene i suoi affari’”. In effetti.
Beppe Fenoglio: letto per bene – cioè, sapientemente antologizzato – Il partigiano Johnny è un tonante romanzo d’avventura, dove Il sentiero dei nidi di ragno fa venire l’aracnofobia intellettuale
La carota. Di Calvino in Einaudi s’è fatta macchietta. Carlo Fruttero – fruttificando l’agiografia – disse che “era totalmente negato per la conversazione… maldestro, impacciato, talvolta ai limiti del balbettio (ma era scena, sotto sotto) ispirava negli astanti un forte sentimento protettivo, sconfinata indulgenza”; cosa che gli procurò, per contrasto, “fama di personaggio altezzoso, sprezzante, ovvero scontroso, chiuso”. Esercitava il talento da editor con pavida scaltrezza: non diceva né sì né no, stilava l’ombra e faceva l’esegeta della reticenza; adorava la stilettata alle spalle. L’8 giugno del 1959, a Pietro Citati, ad esempio, scrive, a proposito di Primavera di bellezza del grande Fenoglio, stampato da Garzanti, “Debole, molto debole il Fenoglio. Ci avete portato via un autore per bruciarlo in una prova modesta”.
Ecco, basta leggere le lettere ‘editoriali’ di Calvino – raccolte in parte da Einaudi, nel 1991, come I libri degli altri. Lettere 1947-1981 – per farci impalcare, da Calvino medesimo, il canone che lo deve rimpiazzare. Intanto, appunto, Beppe Fenoglio: letto per bene – cioè, sapientemente antologizzato – Il partigiano Johnny è un tonante romanzo d’avventura, dove Il sentiero dei nidi di ragno fa venire l’aracnofobia intellettuale. Poi eleggiamo a eroina Anna Maria Ortese, che aristocratica grandezza (“Lei ha scritto un libro bellissimo, dovrebbe ridere e cantare tutto il giorno, per un anno di seguito almeno!”, gorgheggia Calvino il 21 maggio 1953, a proposito de Il mare non bagna Napoli: ha ragione, a lui quelle altezze sono precluse). Quanto Calvino è glaciale così Giovanni Testori è sanguigno, vorticoso, indigesto ai tiepidi: e io sono per l’eccitazione verbale (l’unico libro edito da Einaudi, Il Dio di Roserio, è spiato con sprezzo dal docile Italo: “La mia prima reazione – da lettore comune, diciamo così – è stata di disorientamento… lei dirà: ma Faulkner ne fa di peggio. Ma Faulkner, Le risponderò, è vero che mette tanta carne al fuoco, è uno che vuole impiantare delle tragedie cosmiche che neanche Sofocle” – la nota su Faulkner, siamo al 16 febbraio 1954, la dice sull’idea di letteratura propugnata da IC). Al ‘calvinista’ della letteratura non va giù il corpo, la provocazione, lo scempio: la letteratura è roba da ballerine tra colonnati di cristallo.
Così, Leonardo Sciascia è troppo impegnato e impegnativo, nonostante pubblichi per Einaudi (“è piuttosto superficiale, con un sospetto di facilità”, scrive IC de La morte di Stalin), Luciano Bianciardi, vista la solfa, preferisce pubblicare La vita agra altrove (con scorno di Calvino), a Guido Morselli il duce del non detto non ha cuore di dire niet, s’arzigogola in una lettera lunga così, “il libro ho cercato di leggerlo in tutte le sue dimensioni, e mi sono accanito a smontarlo e rimontarlo: insomma ci ho preso gusto e mi ci sono arrabbiato, non rimpiango il tempo… che ho impiegato a leggerlo… spero che Lei non s’arrabbi per il mio giudizio”, e, insomma, Il comunista lo pubblicherà Adelphi, post-suicidio – insieme a tutti i romanzi di Morselli, più alti, vasti, rapinosi, rapaci dell’opera ingegneristica di Calvino. Per altro, ci sono tanti altri libri, a godimento di liceale, migliori del trittico calviniano incasellato in classifica: Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, Il male oscuro di Giuseppe Berto, Lettere di una novizia e Le stelle fredde di Guido Piovene, Un altare per la madre di Ferdinando Camon, La conchiglia di Anataj di Carlo Sgorlon, e i libri di Goffredo Parise e quelli di Dino Buzzati e perfino La penombra che abbiamo attraversato di Lalla Romano (bellissimo commento di Calvino, a onor di firma, il 16 marzo 1964: “Fa piacere trovare conferma che in mezzo a un mondo letterario dove tutti perdono la testa o in qualche modo inscemiscono, tu sei una persona seria, che continui una tua storia, una tua linea”). E non ho detto Gadda – né la sfilza dei poeti (per altro, le “scorciatoie” di Umberto Saba sono azzurra delizia). Insomma, la lettura è gioia crudele, ferocia urlata, anamnesi del sé, anima scorticata, ammissione di stimmate. Con i ragazzi cominciamo, senza tema, con un po’ di Dostoevskij, un tot di Céline, un grammo di Conrad. Gli italiani verranno. Dopo.