Meno di sei mesi fa Macron sembrava un politico moribondo. Il presidente francese era al minimo storico nei sondaggi, i gilet gialli distruggevano i negozi di Parigi pretendendo le sue dimissioni e gli alleati europei ignoravano il suo ambizioso piano per cambiare l’Ue. Tutti i media avevano già scritto il suo necrologio politico, poi il destino ha avuto più fantasia di lui. Sono bastati una stanza, 28 politici e una scadenza impellente. L’occasione ha fatto il politico scaltro. A differenza dgli altri 27 leader Ue del Consiglio europeo, Macron aveva tre obiettivi precisi e la voglia di portarli avanti. Primo, far fuori lo spitzenkandidaten tedesco Manfred Weber, secondo mettere un francese alla Banca centrale europea e terzo rinforzare l’asse franco-tedesco. Con una buona dose di fortuna ha ottenuto tutte e tre le cose. Ci abbiamo scherzato su anche noi: a leggere i giornali italiani non si capisce se ha vinto Merkel o Macron. Fidatevi, queste nomine sono tutte made in France. Lo ha ricordato lo stesso Macron subito dopo l’annuncio: «I vertici europei parlano tutti benissimo francese» e non è un caso. Macron esulta perché ha reso i liberali l’ago della bilancia europea, ma non ditelo al Movimento Cinque Stelle. Ecco chi ha vinto e chi ha perso il trono di Spade delle nomine Ue.
Primo, hanno vinto i liberali, hanno perso tutti gli altri. Per anni i liberali in Europa sono stati considerati un eurogruppo di secondo piano, a volte eccentrico. Basta fare il nome del loro leader Guy Verhofstadt, ultra europeista che però non ha mai ottenuto una carica di rilievo, neanche la presidenza del Parlamento europeo. Ma con l’arrivo di Macron è cambiata la dimensione politica. Sono arrivati terzi, dietro socialisti e popolari ma hanno una delle cariche più prestigiose: la presidenza del Consiglio europeo. Per capire le proporzioni della vittoria, chi siederà su quella poltrona è Charles Michel, attuale primo ministro belga di un governo moribondo che si è portato stancamente avanti fino alle elezioni del 26 maggio. In Belgio si vota in coincidenza con le elezioni europee. I veri sconfitti di questo giro di nomine sono i socialisti, arrivati a un passo dalla presidenza della Commissione europea ma Frans Timmermans non ce l’ha fatta. È entrato Papa nel conclave ed è uscito cardinale. Il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez ha fatto lo stesso errore politico di Matteo Renzi cinque anni fa: ha usato la sua rendita da partito socialdemocratico più votato per ottenere la carica meno decisiva e importante tra le quattro a disposizione: l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza. Ancora senza un esercito europeo la politica estera della Commissione è solo soft power e distintivo. Ci andrà Josep Borrell, ex presidente dimenticabile del Parlamento europeo. Non proprio il massimo. E dire che ai socialisti era stata proposta la presidenza del Consiglio europeo ma forse mancava il nome adatto. Enrico Letta sarebbe stato perfetto, ma per sua sfortuna è italiano nello stesso momento in cui al governo ci sono Lega e 5 Stelle. E hanno perso anche i popolari europei. È vero, Ursula Von der Leyen è del Ppe, ma non è stata la Merkel a proporla per la presidenza della Commissione europea. Il nome lo ha fatto Macron perché ha conosciuto la ministra della difesa tedesca due settimane fa durante un incontro tra i ministri della difesa di Francia, Spagna e Germania. Merkel non ha potuto dire di no alla sua delfina. Il Ppe aveva due nomi da sempre: Weber e Michel Barnier. Il primo come candidato di punta per le elezioni, il secondo come riserva in caso gli spitzenkandidaten fossero stati bruciati durante il negoziato. Cosa regolarmente avvenuta. Macron però ha imposto una politica di secondo piano. Un outsider che gli dovrà molto in futuro.
Secondo, ha vinto l’Europa dell’Ovest e ha perso quella dell’Est. Una francese (Lagarde), una tedesca (Von der Leyen), uno spagnolo (Borrell) e un belga (Michel) ricoprono le cariche più importanti. Nessuno dei vertici Ue appena nominati è nato più a est di Bruxelles. Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca sono state bravissime a bocciare i candidati sgraditi, ma pessimi nel creare un’alternativa. E l’Italia è caduta nella rete di Visegrad a cui serviva un Paese prestigioso da 60 milioni di abitanti per impedire la nomina di Timmermans. La telefonata tra il premier ungherese Viktor Orbàn e Matteo Salvini è stata decisiva per affondare la candidatura dell’olandese. Non smetteremo mai di dirlo: era l’unico nome tra quelli in ballo a esser favorevole alla redistribuzione dei migranti e a dare più flessibilità economica all’Italia. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte esulta per il commissario europeo alla concorrenza, ma nessuno gli ha ricordato che il nome proposto dall’Italia dovrà fare gli interessi di tutti gli europei e non quelli di Palazzo Chigi. L’Europa del Nord? Non pervenuta perché ha scommesso tutte le fiches su una sola candidata: la danese Margrethe Vestager che ha ottenuto la seconda vicepresidenza della Commissione. L’altro papabile nordico era l’ex premier finlandese Alex Stubb ma aveva perso in partenza la lotta con Weber per rappresentare il Ppe alle elezioni europee.
A leggere i giornali italiani non si capisce se ha vinto Merkel o Macron. Fidatevi, queste nomine sono state tutte made in France
Terzo, ha vinto l’Europa dell’austerity, ha perso quella dell’Eurobond. La donna che guiderà la Banca centrale europea è stata per anni il volto femminile dell’austerità. Christine Lagarde da presidente del Fondo Monetario Internazionale è stata una delle responsabili delle riforme lacrime e sangue imposte alla Grecia per ricevere i prestiti che non hanno fatto fallire il Paese. Secondo molti analisti non essendo una tecnica come Draghi si adeguerà al contesto del board della Bce. Ma la sensazione è che userà con meno disinvoltura il bazooka del Quantitative easing quando l’eurozona si troverà in difficoltà. Si è detto molto dell’atteggiamento di Von der Leyen durante la crisi del debito greco. Secondo fonti tedesche la sua posizione era talmente intransigente che un falco del rigorismo che Wolfgang Schauble ne prese le distanze. Vdl propose di concedere gli aiuti finanziari per gli Stati dell’eurozona solo a fronte di garanzie collaterali: riserve auree o partecipazioni industriali. Sono passati anni, avrà ammorbidito la sua posizione, diamo almeno il beneficio del dubbio. Ma non interpreterà il suo ruolo come Jean Claude Juncker che ha permesso all’Italia di fare più di 30 miliardi extra di deficit in cinque anni. Lo scopriremo quando si discuterà la prossima legge di bilancio italiana. Ma sicuramente per molto tempo non si parlerà di condividere il debito o un ministro delle finanze europeo con grandi poteri di investimento.
Quarto, hanno vinto i federalisti e hanno perso i sovranisti. Tre dei quattro nomi scelti per le cariche Ue ultra-europeisti. Ursula Von Der Leyen è nata e cresciuta a Bruxelles, suo padre ha lavorato per la commissione europea. Addirittura in un’intervista al Der Spiegel del 2011 disse: «Il mio obiettivo sono gli Stati Uniti d’Europa – sul modello degli stati federali Svizzera, Germania o degli Usa». Da ministra della difesa tedesca è stata una delle politiche che ha spinto di più per aumentare i finanziamenti al fondo di difesa europea. Uno sforzo che ha portato alla Pesco, la Cooperazione strutturata permanente per aumentare l’efficienza e l’integrazione degli eserciti europei. E i sovranisti? Non hanno ottenuto nulla, nemmeno una misera vicepresidenza del Parlamento europeo. Addirittura Fabio Massimo Castaldo del Movimento Cinque Stelle è riuscito a farsi eleggere di nuovo vice-presidente dell’Europarlamento nonostante il suo partito sia ancora tra i non iscritti. C’è stato un cordone sanitario intorno ai sovranisti e nessuno ha intenzione di aprire una breccia. Lo schiaffo finale all’Italia è stata l’elezione di David Maria Sassoli alla presidenza del Parlamento europeo. Un modo per dare un ruolo di peso all’Italia ma senza accontentare i sovranisti. L’europarlamentare del Partito democratico è stato l’uomo giusto al momento giusto e ha colto la palla al balzo con un discorso d’insediamento in cui ha attaccato gli egoismi nazionalisti.
Quinto, c’è una partita ancora da giocare: quella dei futuri commissari europei. Sembra incredibile ma Von der Leyen non è ancora sicura dell’elezione perché la sua nomina dovrà essere ratificata dal Parlamento europeo e i Verdi non sembrano così propensi a votarla. Sarà difficile raggiungere la maggioranza assoluta di 376 voti. Il risultato sarà influenzato anche dai commissari che la tedesca avrà scelto. E qui si apre un’altra gara dove Italia ed Europa dell’Est vogliono tornare a contare. Un indizio l’ha dato giovedì Matteo Salvini, ospite di Fuori dal Coro di Mario Giordano: «Ho in mente già un commissario che si occuperà di lavoro. Ma il problema sono gli italiani che arrivati lì si scordano del loro Paese. Voglio mandare uno che abbia a cuore gli interessi dell’Italia». Tradotto: fuori dalla corsa il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi che da mesi cerca di raggiungere quel ruolo. La suggestione più affascinante è Giulio Tremonti. L’ex ministro dell’Economia ritornerebbe sulla scena politica dalla porta principale dopo la fine del governo Berlusconi del 2011. Che sia il portafoglio della concorrenza o quello dell’Industria, Tremonti può far valere la sua idea di lotta alle multinazionali e consigliare una politica dei dazi europea per combattere la globalizzazione selvaggia. E a chi dubita che possa essere scelto perché troppo compromesso con i governi Berlusconi basta far vedere un’intervista con Gianni Minoli di due anni fa in cui afferma le stesse cose dette da Salvini oggi contro gli organismi internazionali e il fallimento dell’uomo “nuovo” cosmopolita che l’ordine economico mondiale voleva realizzare dopo il crollo del muro di Berlino. Tremonti non avrebbe problemi a passare l’audizione del Parlamento europeo vista la sua esperienza. L’Aula di Strasburgo sa essere poco indulgente con i candidati commissari che non ritiene adatti. Nel 2004 Rocco Buttiglione proposto dal governo Berlusconi fu bocciato dall’Europarlamento per una sua frase ritenuta omofoba. E il favorito Giancarlo Giorgetti, considerato il braccio destro di Salvini, sarebbe considerato un candidato troppo italianocentrico e poco europeista. Ma per sapere chi vincerà dovremo aspettare il 16 luglio.