È notizia di qualche giorno fa che il governo del premier Fayez al-Sarraj ha liberato 350 migranti che erano rinchiusi nel centro di detenzione di Tajoura, quello colpito la scorsa settimana da un raid dell’aviazione del generale Khalifa Haftar che ha ucciso 53 persone, e che avevano iniziato uno sciopero della fame per chiedere all’ONU garanzie di non finire nuovamente sotto attacco magari in altri centri libici. In un suo recente editoriale il direttore Francesco Cancellato, ha così chiosato: “abbiamo creato un’emergenza migranti dove non esisteva. L’abbiamo gestita in modo demenziale, sia a livello italiano, sia a livello europeo. Abbiamo ingrassato leader politici africani che ora ci ricattano per avere più soldi. Abbiamo raccontato la favoletta della Libia porto sicuro, per sentirci a posto con la coscienza mentre rimandavamo dei disperati all’inferno. Tutto, per un po’ di soldi, o per qualche voto in più. Adesso raccogliamo quel che abbiamo seminato. Essere ricattati dalla Libia è il minimo che ci può capitare. Il minimo.”
Ecco, io vorrei partire da questa sua analisi di scenario per ampliarne ancora di più la gittata dello sguardo sino a un livello planetario, e se possibile, temperarne la punta sino a renderla capace di scavare nella nostra coscienza individuale e collettiva per farla emergere da strati di cemento. Altrimenti non sarà possibile giungere ad alcuna soluzione adeguata a gestire la realtà in cui viviamo. Una realtà che non è più locale ma globale. Dobbiamo capirlo. Se non comprendiamo questo passaggio d’ottica, da locale a globale, avvenuto nel corso di pochi decenni, e se non iniziamo a ragionare su misure organizzative impostate su questa scala, la spinta derivata dalla geografia umana farà straripare gli argini già molto fragili. Dobbiamo capire che la crisi climatica, che inciderà sempre più sulla disponibilità presente e futura delle risorse disponibili, e l’impennata demografica, sono i veri driver che guideranno i movimenti delle popolazioni sul pianeta. Poco importa se a dettare questi flussi sono fame, disperazione, violenza e guerre oppure ricerca della propria felicità o del proprio business. Il terreno per fare questi distinguo è quello umanitario nel quale non mi addentro perché non è questo il caso per farlo pur essendo fermamente convinto che la crisi maggiore che stiamo attraversando sia proprio quella della nostra identità di uomini. Il terreno è piuttosto quello politico, quindi amministrativo. Sapete quali sono gli strumenti scelti quasi ovunque nel mondo dagli amministratori locali per contenere i flussi migratori? I muri.
Sapete quali sono gli strumenti scelti quasi ovunque nel mondo dagli amministratori locali per contenere i flussi migratori? I muri
Prendiamo per esempio Trump, che per avanzare il proprio diritto ad alzare l’ennesimo muro ha citato lo studio di Elisabeth Vallet, una docente di Geografia all’università del Québec a Montréal, il quale conta attualmente 70 muri e altri 7 in costruzione nel mondo. Parliamo solo delle barriere non mobili.
Questi sono stati costruiti nell’ultimo quarto di secolo: quando fu abbattuto il Muro di Berlino, le recinzioni erano solo 16. In Europa nessuno dei paesi che compongono l’Unione aveva costruito barriere sui propri confini fino agli anni ’90. La prima fu eretta nel 1992 a Ceuta, città enclave spagnola in Marocco, seguita nel 1996 da Melilla; nel 2012 e nel 2013 sono sorte le barriere tra Grecia e Turchia (12 km) e tra Bulgaria e Turchia (201 km). Nel 2015, la crisi siriana e la rotta balcanica dei rifugiati provenienti in prevalenza dalla Siria hanno determinato la costruzione di quelle tra Ungheria e Croazia (300 km) e tra Ungheria e Serbia (151km); tra Austria e Slovenia (4 km) e tra Slovenia e Croazia (200km); tra Grecia e Macedonia (34 km) e tra Lettonia e Russia (23 km). Nel 2016 sono arrivate quelle tra Norvegia e Russia e tra Estonia e Russia (112 km), e nel 2017 tra Lituania e Russia-Kaliningrad (45 km).
Non tutti sono confini “esterni” alla Ue: quelle tra Austria e Slovenia, e tra Slovenia e Croazia, sono interni a essa, così come il “Muro di Calais” (2 km). Ci sono poi muri interni a un singolo Paese, come quelli in costruzione in alcune città della Slovacchia per separare gli abitanti Rom dal resto dei cittadini. Quasi tutti, oltre a impedire i traffici illeciti e il commercio di esseri umani, hanno anche lo scopo di controllare i flussi dei rifugiati e dei migranti irregolari. Si tratta di oltre mille chilometri di muri in pochi anni, a cui si aggiungono quelli marini, cioè tutti quei controlli in mare con funzioni analoghe: da Frontex a Missione Mare Nostrum, Poseidon, Hera, Indalo, Minerva, Hermes, Triton e Sophia.
Il dettaglio trascurabile che il Presidente Usa dimentica di dire è che quello stesso studio in nome del quale si sente in diritto di costruire il “beautiful wall” con il Messico dimostra la storica inutilità delle barriere in termini di funzionalità reale. Nessun muro si è rivelato inespugnabile. È solo un palliativo temporaneo alla paura della globalizzazione, comunque costosissimo in termini di manutenzione, sorveglianza e impatto ambientale. Senza contare il costo di vite umane che ritengo non monetizzabile. Non stimabile. Abbiamo l’ultima occasione della storia per rimettere al centro del nostro sistema economico e sociale l’Uomo, quale soggetto ispiratore della progettualità e della felicità, e l’Amore, che per me è in assoluto l’atto economico per eccellenza. Dobbiamo solo fare un passo indietro e concederci una pausa, un momento 0.0, per capire che il costo di questa corsa a costruire muri può essere meglio impiegato a favore dell’Uomo e non contro di esso.