«E che facciamo, ci mettiamo tutti il gilet giallo?». Tra le tante, scegliamo questa dichiarazione, che porta la firma del turbo-renziano Sandro Gozi, per descrivere la reazione suscitata dalle parole di Dario Franceschini, che, in un’intervista al Corriere della Sera, ha parlato esplicitamente di «condivisione di certi valori da parte di Pd e M5s» e della possibilità di «costruire un arco di forze che, anche se non governano insieme, sono pronte a difendere insieme i valori umani e costituzionali che Salvini calpesta e violenta ogni giorno».
Una riflessione che ha scatenato un fuoco di fila da parte della minoranza dem, che ha portato lo stesso Di Maio a dire che i Cinque Stelle sono «orgogliosamente diversi dal Pd coinvolto nei fatti di Bibbiano», e che ha costretto il segretario dem Zingaretti a smorzare i torni e a ribadire, per l’ennesima volta, che «non c’è alcuna prospettiva di alleanza tra Pd e M5s all’orizzonte». Il quotidiano del Pd Democratica – che sembra sempre più una voce che si muove in autonomia rispetto all’indirizzo della segreteria – parla di “tafazzismo” da parte di Franceschini, che divide i dem proprio nel momento di massima difficoltà del governo giallo-verde.
Ma dietro tutto questo, secondo la ricostruzione di alcuni parlamentari poco appariscenti sui social ma solitamente molto ben informati, si cela un disegno, o almeno un tentativo, ben più complesso e meno banale di una generica accusa di “tafazzismo”. Un disegno che tocca molto da vicino il destino del governo, che riguarda la possibilità di un’alternativa all’attuale maggioranza, e che, ovviamente, ha a che fare con il futuro del partito. Nonostante la superficialità con cui venga trattata, sembra molto più una partita a scacchi piuttosto che la solita rissa tra ultrà alla quale è stata già ricondotta.
I nomi coinvolti in questa storia sono molti. Il primo è quello più importante e autorevole. Stiamo parlando del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È cosa nota che il capo dello Stato voglia evitare ad ogni costo le elezioni anticipate. Per come è ridotta l’economia italiana, un Paese che precipita verso le urne potrebbe rappresentare un rischio per la tenuta del sistema-Italia, sia dal punto di vista finanziario sia, soprattutto, dal punto di vista sociale.
La paura di Salvini è che, se l’alleanza Cinque-Stelle e Pd dovesse realmente prendere vita, la Lega, cioè il partito più votato in Italia, possa finire in minoranza. Ciò vorrebbe dire che Salvini si lascerebbe sfuggire l’unica vera priorità che ha in testa in questo momento: eleggere il nuovo presidente della Repubblica nel 2021
E qui subentra il secondo nome pesante, quello di Matteo Salvini. Il leader della Lega è ormai braccato a uomo da molti suoi colonnelli, sia a Roma che, soprattutto, in Lombardia e in Veneto, che non tollerano più l’alleanza con i Cinque Stelle e gli chiedono quotidianamente di staccare la spina al governo. Ma il ministro dell’Interno, a cui si possono imputare molti difetti, ma non sicuramente quello di avere scarso fiuto politico, sta provando disperatamente a tenere il punto, perché non ha mai visto di buon occhio la possibilità di un governo con Forza Italia (se il fronte di destra-destra con la Meloni non dovesse essere sufficiente).
Ad aumentare ulteriormente i tentennamenti di Salvini sono proprio gli ammiccamenti tra Pd e M5S, che lui sta provando a tramutare in consenso nei suoi confronti. La paura del leader della Lega è che, se quest’alleanza dovesse realmente prendere vita, magari con l’aiuto di qualche altro “responsabile” che in questo momento di tiene alla larga dal ring della politica urlata, il partito più votato in Italia possa finire in minoranza. Ciò vorrebbe dire che Salvini si lascerebbe sfuggire l’unica vera priorità che ha in testa in questo momento: eleggere il nuovo presidente della Repubblica nel 2021, l’ultimo tassello che porterebbe a compimento la torsione sovranista del Paese.
Agitare lo spettro di una reale alternativa parlamentare, che possa evitare il ritorno alle urne, è il principale deterrente alla possibilità che la Lega rompa il patto con i Cinque Stelle per provare a governare con la Fratelli d’Italia. È la teoria del male minore, quella che si sta diffondendo al Colle e in diversi ambienti dem. In sintesi suona così: “Ok, abbiamo sbagliato a far nascere il governo giallo-verde, ma ora non possiamo perseverare e consegnare il Paese agli estremisti di destra che andrebbero addirittura ad eleggere il nuovo capo dello Stato“.
In questo ragionamento, che la prospettiva di un’alleanza Pd-M5s sia reale o solo sbandierata, è un dettaglio. L’importante è che questo scenario entri nella testa di Salvini. Giuseppe Conte e Roberto Fico vengono considerati, dal Quirinale, due bastioni non certo indistruttibili, ma sufficienti a tenere testa alle pulsioni egemoniche del titolare del Viminale. In questo senso, la possibilità di un’alternativa parlamentare all’attuale maggioranza viene evocata anche per far uscire allo scoperto Luigi Di Maio, che, prima con l’aggressiva (ma sostanzialmente solitaria) campagna social “contro il Partito di Bibbiano” e poi con il secco e immediato no alla proposta di Franceschini, ha fatto capire di essere ormai una costola della Lega e di essere sempre meno decisivo nella definizione degli equilibri interni del M5s.
E infine veniamo al Pd. Qui la partita a scacchi è doppia e, come spesso capita quando si parla dei dem, ancora più complicata. Il compito di Zingaretti è improbo: tenere insieme un partito e, al tempo stesso, provare a prenderne il controllo che non ha mai avuto. Una cosa tutt’altro che semplice, che necessita di equilibrio e lungimiranza. Negli ultimi giorni, il fronte renziano è una polveriera: prima la cancellazione dell’elezione a segretario del Pd siciliano di Davide Faraone, poi la polemica social con il deputato renzianissimo Michele Anzaldi, infine la detonazione dovuta a quella che viene considerata l’ennesima provocazione di Franceschini.
«Stanno epurando i renziani uno ad uno per prepararsi il terreno dell’alleanza con il M5s», accusa proprio Faraone. In realtà è opinione diffusa che Zingaretti stia mettendo alla prova la resistenza degli uomini legati all’ex premier. Quanti sono davvero disponibili a lasciare il Pd per seguire Renzi in un nuova progetto politico con scarsissime possibilità di successo? D’altra parte, però, è altrettanto evidente che proprio il fronte renziano sta facendo di tutto per logorare Zingaretti. Di qui la vera partita a scacchi: ognuno vuole far ricadere sull’altro la colpa di una rottura, facendo attenzione ad ogni singola mossa, perché anche il più piccolo e apparentemente superficiale errore potrebbe risultare fatale.