Al settimo weekend di proteste, la Cina a Hong Kong mostra il suo lato peggiore. Domenica notte a Yuen Long, un distretto della città cinese, è andato in scena un brutale attacco nel quale 45 persone sono rimaste ferite. Una risposta cieca alle proteste contro quella legge sull’estradizione, proposta dall’attuale capo esecutivo di Hong Kong Carrie Lam, che potrebbe limitare la libertà del territorio autonomo dalla Cina (già di per sé labile). L’artefice della repressione per il momento ha due volti: quella della polizia di stato, immobile di fronte alle ripetute violenze, e quella della Triade, la cui ombra veste molti degli aggressori coinvolti.
Nonostante, quindi, il passo indietro dei vertici governativi della città sulla legge in questione, proteste e contro-proteste continuano a destabilizzarne l’ordine pubblico. E il motivo è uno solo. «Non basta considerare la legge sull’estradizione morta», afferma a Linkiesta Joshua Wong, fondatore del movimento Occupy Central che portò nel 2014 alla “rivoluzione degli ombrelli”, nonché segretario generale del partito democratico Demosistō e leader di questo nuovo filone di proteste. «Quello che chiediamo sono elezioni libere, le dimissioni di Carrie Lam e una minore ingerenza cinese».
Appena uscito dal carcere di Lai Chi Kok, dove ha scontato due mesi, Wong si è lanciato ben presto al comando di questo nuovo scontro contro il governo cinese e locale. La legge controversa avrebbe consentito di estradare nella Cina continentale le persone accusate di avere commesso alcuni crimini: oppositori e associazioni umanitarie hanno pertanto palesato da subito il timore di nuove rappresaglie e il potenziamento illiberale del sistema giudiziario cinese. «In palio c’è l’indipendenza della città, ma soprattutto la libertà dei suoi cittadini di manifestare le proprie critiche al governo», afferma l’attivista.
I messaggi di questa protesta devono essere raccolti da tutto il Paese, anche dalla stessa polizia. La pratica della democrazia a Hong Kong può avere una sola via, ovvero quella delle urne e della legittimazione popolare
Ad oggi, circa un milione di persone hanno preso parte alle proteste, spinti in primis da istanze di autoderminazione. «I messaggi di questa protesta devono essere raccolti da tutto il Paese, anche dalla stessa polizia. La pratica della democrazia a Hong Kong può avere una sola via, ovvero quella delle urne e della legittimazione popolare».
Come se non bastasse, Hong Kong è stata storicamente un avamposto dell’intelligence di Londra e Washington per operazioni nel continente asiatico, il che ha portato la presidenza Trump a esporsi in prima linea a favore del pugno duro di Pechino. L’autonomia della città dalla Cina, sulla base dell’accordo stipulato fra Londra e Pechino, con le sue leggi e la sua governance dovrebbe durare fino al 2047, o almeno è quello che si augura la speaker statunitense della Camera dei rappresentanti Nancy Pelosi, ventilando la possibilità di una revisione da parte del Consiglio dello status speciale di cui gode Hong Kong a livello economico internazionale.
Per la città, che da anni è affetta da un’inguaribile crisi abitativa e prospettive di lavoro in peggioramento, Joshua Wong e Nathan Law pongono tra gli obiettivi quello di un referendum per l’uscita dalla Repubblica Popolare Cinese. Il movimento, dopo le ultime elezioni legislative, ha visto circa il 20% dei 2,3 milioni di votanti appoggiare il suo ingresso in parlamento a favore dell’autodeterminazione e persino dell’indipendenza della Cina. Anche se Hong Kong mantiene una propria autonomia dal 1997, negli ultimi anni le tensioni politiche tra i sostenitori della Cina comunista e quelli favorevoli a più autonomia hanno raggiunto un’escalation sempre più allarmante.
La Cina sta perdendo il controllo dei suoi satelliti, e non sapendo come rimettere alle richieste storiche di Hong Kong, ha preferito ripiegare sulla violenza
Tra le molte differenze, l’anti-estradizione promossa dai ribelli di Hong Kong contro Pechino assume una questione quasi del tutto estranea alla legge stessa. Carrie Lam nonostante il sangue versato non ha mai dato segno di aprire a possibili dimissioni dell’esecutivo, e la tenue condanna alle violenze ha portato molti a pensare a un assoldamento di quei soldati dalle magliette bianche che hanno scagliato bastoni e pugni contro gli ignari passeggeri.
La Cina sta perdendo il controllo dei suoi satelliti, e non sapendo come rimettere alle richieste storiche di Hong Kong, ha preferito ripiegare sulla violenza. «Sono stati assaliti con estrema brutalità anche donne incinta e bambini innocenti. In questi giorni, inoltre, stiamo studiano seriamente l’interferenza della mafia, come se non bastasse», spiega Wong.
Taiwan nel frattempo usa inaspettata premura: il governo dell’isola ha offerto la propria assistenza ai manifestanti di Hong Kong che hanno lasciato la Regione amministrativa speciale cinese in seguito alle proteste, scatenando ira e timori del governo di Xi Jinping.
Il governo di Pechino dovrà pertanto rimettere mano alle sfide interne, controllando gli estremi delle autonomie concesse con la consapevolezza che anche i giganti hanno un punto debole.