AnalisiIl Russiagate è solo l’antipasto: il progetto di Salvini è un’Italia alla deriva e nemica di tutti

Lo scandalo in cui è impigliata la Lega rivela, in sottotesto, un cambiamento molto più grande e più pericoloso: quello di un partito che cercherà di eliminare l’idea di società aperta e tollerante in nome di nuove alleanze e amicizie

Andreas SOLARO / AFP

Qualcuno ha avuto problemi con Ruby. Qualcuno con lotti (minuscolo) e appalti. Qualcuno infine con Lockheed e rubli, tesori russi e tesori americani d’antan. Di scandali, finanziamenti occulti, riciclaggio e disinvoltura nel negare l’evidenza (dalla nipote di Mubarak a Savoini/Carneade imbucato ai ricevimenti ufficiali, chi era costui?) si sono purtroppo nutrite la prima, la seconda e la caricatura della terza Repubblica con contorno drammatico e inquietante delle trame che hanno ammorbato la storia degli ultimi decenni, dal rapimento Moro alla P2.

Trame in parte ancora oscure, in parte ascrivibili alla Guerra Fredda, al gioco politico/diplomatico in cui l’Italia era impigliata, con tante variabili comprensibili e un po’ paradossali, soltanto se si ripercorre la storia plurisecolare di un Paese invaso, dominato, mai veramente unito, con vocazione al vassallaggio.

C’è un’altra ben più grave problematica che il Russiagate in cui è impigliata la Lega di Salvini ha portato alla ribalta. Ossia la metamorfosi politica, culturale e ideologica del partito

Il PCI, presunto terminale degli interessi e dei finanziamenti di Mosca, preferiva l’ombrellone della Nato. La Fiat degli Agnelli era ben lieta di aprire in Russia le prime fabbriche di automobili italiane. Tutto questo non appartiene al passato, perché tanti rivoli politici, culturali, economici, in buona parte legali e alla luce del sole, ancora oggi, e probabilmente in futuro, irradieranno la ragnatela dei rapporti fra l’Italia e le Grandi Potenze, Russia compresa.

Questa premessa per fare riflettere su un’altra ben più grave problematica che il Russiagate in cui è impigliata la Lega di Salvini ha portato alla ribalta. Ossia la metamorfosi politica, culturale e ideologica del partito, al di là degli affari effettivamente conclusi e dei finanziamenti effettivamente ottenuti sottobanco. Che Salvini chiarisca o meno, che tutto finisca in una bolla di sapone, che qualcuno paghi per davvero e non ci venga raccontato che Savoini è il nipote di Tutankhamon e non è nemmeno leghista, che la Russia abbia davvero interesse a finanziare movimenti sovranisti e abbia la potenzialità di farlo – sono aspetti pesanti, ma secondari di una vicenda che potremmo comunque iscrivere nella storia patria di corruzione e presunti finanziamenti illeciti.

La metamorfosi leghista, confermata dal Russiagate, è invece il vero fatto inquietante che assegna a Matteo Salvini il poco onorevole ruolo di politico più pericoloso d’Europa (copyright l’Economist). Perché dietro alla corsa ad accreditarsi a Mosca (dopo l’inginocchiatoio a Washington che forse ha fatto scattare trappole e ritorsioni dei burattinai) c’è tutta la conversione di uomini, mezzi, programmi e attività politiche e organizzative del movimento fondato da Bossi.

Basta ripercorre le tappe pià significative. Dalle sparate contro i terroni alla più o meno rispettabile esaltazione della Padania, dalla rispettabile battaglia autonomista alle illusioni secessioniste, dalla guerra all’Europa e all’euro alla deriva sovranista e nazionalista per conquistare il consenso popolare anche al Sud.

È lo sfregio di una società che continuamo a ritenere aperta, tollerante, profondamente democratica, ancora europeista, solidale, la deriva autarchica (se non autoritaria)

Dentro questa conversione, ci sono arruolamenti di ex fascisti e ideologici del nazionalismo, lo stillicidio di episodi razzisti e xenofobi sostenuti o tollerati da amministratori locali, i proclami a favore dell’uso delle armi e dell’autodifesa, il supporto culturale e intellettuale di visioni e progetti in rotta di collisione con l’Europa, l’esaltazione della Brexit, i legami con movimenti sovranisti e di estrema destra in Europa, la disinvoltura che porta allo spargimento capillare di slogan, insulti e denigrazione di critici e avversari, la voracità nell’occupazione di spazi culturali e informativi, la pressione sui media, il richiamo a tradizioni ataviche, come se fosse riproducibile una grottesca marcia wagneriana in salsa padana.

In questa conversione, per tanti anni considerata folkloristica e un po’ cialtrona, come le felpe del capitano, ci sono oggi i germi di un pericolo reale che troppi stentano ancora a vedere. Il pericolo che la metamorfosi di un movimento diventi la metamorfosi di un Paese, lo sfregio di una società che continuamo a ritenere aperta, tollerante, profondamente democratica, ancora europeista, solidale, la deriva autarchica (se non autoritaria) di una Nazione che si allontana dall’Europa senza sapere nemmeno dove andare. Avanti tutta, alla deriva.

Ma se questo è la traiettoria, che cosa nasconde il Russiagate se non la genesi di una conversione della collocazione internazionale del Paese, delle Alleanze, dei rapporti con l’Europa, di un laboratorio ideologico e culturale da esportazione, secondo tradizioni novecentesche di cui purtroppo siamo stati specialisti?