ScaricabarileNon fare nulla e dare la colpa agli altri: ecco la strategia di Salvini, Conte e Di Maio per sopravvivere al governo

Bloccano l’autonomia? Per Salvini è colpa dei Cinque Stelle. La Lega ottiene un mezzo sì sulla Tav? Di Maio li accusa, e dice che sulla riforma della Giustizia terrà duro. Il gioco delle tre carte è il modo migliore per non governare. E andare avanti a lungo

Abitare la crisi: ecco la linea che in un tacito accordo si sono dati i tre uomini in barca del governo gialloverde: Conte, Salvini e Di Maio. I terminali di quel triangolo delle Bermuda disegnato tra palazzo Chigi, il Viminale e il ministero del Lavoro dove a essere scomparsa è la politica insieme al suo corredo di decisione e responsabilità. Abitare la crisi significa renderla permanente, strutturale, costituzionale al mantenimento d’un esecutivo che ha deciso di non decidere ma di sopravvivere.

Come? Con la formula inedita d’un governo di scarico delle responsabilità a geometria variabile. Il senso della formula è molto semplice malgrado la sua apparente complessità: significa che l’assetto triumvirale del governo consente al premier Conte e ai due vicepremier Di Maio e Salvini di avere sempre una sponda a cui riferire la colpa dell’immobilismo nervoso che è diventata la cifra del governo. Ci bloccano l’autonomia? “Che ci volete fare – allarga le braccia Salvini – la colpa è dei signorno Cinquestelle”. La Lega ottiene un mezzo si sulla Tav? “Non possiamo per questo far saltare il governo, ma sulla riforma della giustizia teniamo fermi i paletti” dice ai suoi Di Maio. Salvini snobba il presunto Russiagate come questione bagatellare? Conte va al Senato a tenere il punto e chiedere spiegazioni sul caso. Costringendo il leader leghista a non sottrarsi (anche se consigliato da Giulia Bongiorno in Senato probabilmente Salvini stamattina non ci sarà).

E ancora: Salvini vuole la riforma della giustizia? Ecco che Di Maio e Conte si mettono di traverso, pongono condizioni, vogliono capire merito, metodo e percorso. E così per la flat tax, le grandi opere, la riduzione delle tasse e così per tutto.

Certo, il risultato è la paralisi politica e decisionale di cui però ognuno dei tre attori di questa commedia può imputare la responsabilità all’altro. E il gioco sembra funzionare, perché alla fine, complice la latitanza dell’opposizione – concentrata nei suoi regolamenti di conti interni – la dialettica politica finisce col consumarsi tutta all’interno dello stesso esecutivo e nel sapiente gioco delle parti che le maschere sulla scena si sono date.

Abitare la crisi significa renderla permanente, strutturale, costituzionale al mantenimento d’un esecutivo che ha deciso di non decidere ma di sopravvivere

È come nel “Buono, il brutto e il cattivo” di Sergio Leone: ci sono tre nemici che si farebbero la pelle volentieri ma sono costretti ad essere alleati e rimandare la resa dei conti, perché ognuno di loro ha un pezzo della mappa che porta al tesoro (nel film sepolto nella tomba di un cimitero nel deserto, che si spera non sia la metafora dell’Italia dopo la cura gialloverde).

Il tesoro del triangolo Conte-Di Maio-Salvini è la sopravvivenza politica al governo. Perché ogni alternativa costituisce un’incognita e delle variabili che mettono a rischio il capitale politico congelato ma sicuro di cui ognuno di loro oggi dispone. Conte è lusingato delle attenzioni che una parte dell’establishment gli sta riservando – Eugenio Scalfari scriveva la settimana scorsa che potrebbe rivestire la funzione che fu di Aldo Moro, addirittura! – e ha preso molto sul serio il suo ruolo.

Nella partita in Europa, per dire, il suo attivismo è stato decisivo durante il negoziato per evitare la procedura d’infrazione e nell’indirizzare il voto Cinquestelle alla Von der Layen. Ma Conte sa molto bene che le ipotesi che oggi circolano sul suo nome come possibile guida di un governo di tregua nazionale sono sottili come i fili d’una ragnatela. Allo stesso modo l’avvocato degli italiani è avvertito del fatto che chi entra Papa in conclave – come si dice in Vaticano, ambiente dove Conte è di casa – ne esce cardinale. La sua attuale forza risiede tutta nell’interposizione tra Salvini e Di Maio, nella sua capacità cioè di porsi come figura di dialogo e mediazione tra due forze dagli istinti estremisti e nella sua capacità di verticalizzare, in questa specifica situazione e in assenza di altre figure a lui omologhe, ora con il Quirinale ora con l’Europa.

Da parte sua Di Maio sa bene che la leadership di cui si fregia nel Movimento ha la stessa data di scadenza della legislatura. Per questo bombarda ogni ipotesi di intesa con il Pd – la dichiarazione “Mai con loro” è immediatamente successiva all’intervista di Dario Franceschini al Corriere, dove l’ex segretario dem apriva a uno scenario di intesa – e per questo il suo spartito è sempre quello di alzare la voce contro Salvini senza mai affondare il colpo.

Infine Salvini. È da un mese che il leader della Lega minaccia la crisi di governo senza mai aver davvero mostrato l’intenzione di aprirla. E questo per una serie di motivi noti: il timore della nascita di un governo di transizione, la paura di perdere – se la rottura fosse sull’Autonomia – l’elettorato del sud; la necessità di tornare al vecchio schema del centrodestra che mentalmente ha archiviato. Ma oltre questi motivi ce n’è un altro, forse quello più dirimente: Salvini non vuole le urne perché se dovesse vincere le elezioni dovrebbe finalmente cominciare a darsi sul serio delle priorità e una strategia politica, dovrebbe cioè in una parola cominciare a governare.

Ecco spiegato perché la crisi di governo non finirà mai, ma diventerà permanente. Assumerà altre forme e altri nomi: dopo il Russiagate – oggi in onda al Senato – tornerà alta la tensione sull’autonomia differenziata, poi sulla Tav, la Flat Tax, la riforma della Giustizia ma finchè il gioco funzionerà si troverà il modo di rimandare, triangolandosi le responsabilità con disonestà creativa.

I tre uomini in barca – il buono il brutto e il cattivo di questo spaghetti western senza Clint Eastwood – comprano tempo ed esistono in modalità di sopravvivenza

È paradigmatico a riguardo ciò che avviene in queste ore per l’autonomia: per evitare la mina ieri sono saltati due vertici propedeutici al Consiglio dei ministri di giovedì (ad oggi sconvocato) che Conte doveva tenere con i ministri Stefani e Bonisoli e con i tecnici del Tesoro. Questione rimandata a data da destinarsi. Secondo copione. A cui seguirà dopo l’incursione a Bibbiano – importante è sempre aprire un fronte nuovo quale sia – puntuale indignazione di Salvini che accuserà di melina Conte e i Cinquestelle.

È così che i tre uomini in barca – il buono il brutto e il cattivo di questo spaghetti western senza Clint Eastwood – comprano tempo ed esistono in modalità di sopravvivenza. Preventivando fin d’ora – salvo incidenti di scena sempre possibili – massimo un rimpasto di governo come punta estrema di conflittualità agita. Rimpasto utile per quietare Salvini e offrirgli un tupè – più che un vero scalpo – da esibire ai suoi come trofeo d’una guerra di scena.

Sono noti i nomi bersaglio dei leghisti: Toninelli, il ministro alle Infrastrutture, ribattezzato “il ministro dei blocchi”; il titolare della Salute Giulia Grillo e quello alla Difesa Trenta. E poi Bonafede naturalmente su cui però Di Maio è invece pronto a resistere a oltranza. Ma appunto si parla di conflitto controllato, una condotta utile a fare maggiore economia di conflitto vero. Abitare la crisi si diceva, e farla rendere il più a lungo possibile, “viaggiare in prima – come cantava Ligabue – e che il viaggio non finisca mai”.

Per il resto, come ha detto Salvini qualche giorno fa, siamo nelle mani di Dio. Speriamo non applauda.

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