Poche cose hanno scosso i sentimenti dell’umanità come la decisione della Disney di rifare la Sirenetta in live-action ingaggiando un’attrice nera, Halle Bailey, nel ruolo di Ariel. Ma come, si sono detti in tanti. Ma perché, hanno aggiunto altri ancora. Come è possibile, si sono chiesti. La Sirenetta, hanno tuonato i più coraggiosi (o quelli meno assennati) “non è nera”, hanno detto. Nella loro mente abitava ancora il ricordo della versione animata del 1989, in cui la fanciulla era bianchissima, con tanto di folta chioma rossa e occhi azzurri.
Perché cambiarlo? I più esagerati hanno parlato di “tradimento”, altri hanno invocato storie strappalacrime di empowerment (“Anche io avevo i capelli rossi, Ariel mi ha aiutato a sentirmi più a mio agio con me stessa”), i raffinati si sono appellati alla filologia, citando stralci del testo di Hans Christian Andersen che la descriveva come “bianca”. C’è stato anche chi si è improvvisato biologo e ha sostenuto che, abitando nei recessi marini e distante dalla luce solare, una creatura come una sirena non avesse alcun bisogno di sviluppare una pigmentazione scura, anzi.
Ma si sa, le sirene non esistono davvero e, in quanto a fisiognomica, le favole del XIX scritte in Danimarca (già distorte in modo estremo, ad esempio cambiando il finale) non fanno cassazione. Chi si è lamentato della bianchezza originaria della sirena, poi, si è dovuto misurare con una (per lui) amara realtà: sono tante le rappresentazioni, dal Medioevo al Rinascimento, che le immaginano scure. A volte nere. A volte perfino blu (e avrebbe senso, anche dal punto di vista biologico).
Questo thread di Twitter dell’utente Erik Wade, a questo proposito, è illuminante. Raccoglie immagini di antichi codici europei in cui, tra una riga e l’altra, compaiono le sirene. Come si può vedere, non sono sempre bianche. Anzi.
Insomma, l’argomento storico-filologico non tiene. Quello biologico, neppure. Alla base di tutto sta il fatto che le sirene sono creature immaginarie, per cui la loro rappresentazione diventa una questione culturale. Resta da capire se la scelta di rottura della Disney (ad esempio, non aveva operato modifiche evidenti con La Bella e la Bestia) dipenda da un’autentica sensibilità per l’inclusione, o se non sia dettata da esigenze commerciali (nuovi mercati) e/o di opportunità politica, che in tanti casi può essere letto come opportunismo. In ogni caso, la qualità di un film non si giudica attraverso il colore della pelle del protagonista. Almeno finora.