Re di romaIl miracolo di Ultimo all’Olimpico: riunire 60 mila persone intorno a un “boh”

Bravo, giovanissimo, empatico. Ultimo è il nuovo Venditti. Ma 64 mila persone in uno stadio ce le vedremmo a cantare canzoni un po’ meno scontate

Non mi ritengo attrezzato per spiegare il successo di Ultimo. Perché una cosa è certo, di successo si tratta. Non mi ritengo attrezzato perché la sua storia, o favola che dir si voglia, ha dell’incredibile. Come ha scritto lui stesso sui social, poco prima di calcare il palco montato all’Olimpico, per cantare di fronte a sessantaquattromila persone, e mai artista italiano di soli ventitrè anni era riuscito a far una cosa simile, solo un paio di anni fa suonava davanti a una decina di persone in un localetto romano.

Anche a vedere la classifica FIMI, sempre che abbia un senso oggi dare un’occhiata a una classifica in cui uno come tal Zoda può entrare direttamente al secondo posto degli album, sotto Springsteen e scalzando Madonna, non Pinco Pallina, e la settimana seguente uscire dalla Top 10 come niente fosse, ecco, anche a vedere la classifica FIMI, questa classifica FIMI qui che mischia pere e formaggio, ovvero fisico e streaming, lui, Ultimo, è presente con tre album tra i primi venti in maniera permanente.

Nel senso, a ogni album uscito si piazza lì e non ne esce più. Il che fa pensare che, uscisse con un quarto lavoro di inediti, starebbe anche quello in top 20, raggiungendo gli altri. Il tutto mentre i BIG, o quelli che un tempo ritenevamo BIG, entrano e escono in un batter di ciglia, senza lasciare traccia di sé. Del resto anche nei concerti, salvo le rare eccezioni che conosciamo, Vasco in primis, le cose sembrano non girare bene a certi BIG, si veda il recente bagno di sangue di Ligabue. Ma lui no, Ultimo si fa un Olimpico con sessantaquattromila spettatori e annuncia un tour negli stadi per il 2020, a ventiquattro anni, per capirsi.

Ultimo si chiama Ultimo, non primo. Presentarsi con umiltà, come uno della strada, de borgata, sembra già un buon primo passo.

Ora, non mi ritengo attrezzato per spiegare il successo di Ultimo, ma qualche ragionamento a riguardo me lo sono ovviamente fatto. Perché mi occupo di musica, e perché in fondo la formula messa in campo da Ultimo non è così complicata da decodificare.

Innanzitutto il nome. Ultimo si chiama Ultimo, non primo. E in un periodo storico come questo, in cui una sorta di rivolta sociale partita dal basso al suon di “reddito di cittadinanza per tutti” e “quota cento per i reietti dell’INPS” sembra davvero il nome dell’artista destinato al successo. La gente, o ggente che dir si voglia, sembra odiare chi vince, oggi, anche se poi odia ancora di più chi perde, si veda quello che si è scatenato contro i migranti, ma presentarsi con umiltà, come uno della strada, de borgata, sembra già un buon primo passo. In questo, va sottilineato, avere Fabrizio Moro, il Fabrizio Moro tornato in auge negli ultimi tempi, come lui di San Basilio, come lui con la faccia sempre incazzata, quasi disperata, col romanesco pronto a spuntare nel mezzo di una frase, ha aiutato. Poco conta che ci sia anche una questione di management comune, non è questo il punto. Anche perché Ultimo, va detto, è riuscito in una impresa che Moro non ha compiuto e probabilmente non compirà mai.

Quindi il nome, e va bene. Poi l’immagine. Ultimo è un ragazzo di oggi, con gli stessi stilemi iconici dei trapper, che in qualche modo, in apparenza, dominano il mercato di questi tempi, ma è al tempo stesso uno normale, comune. Ha quindi quella simpatica marea di tatuaggi, e ci mancherebbe altro, ma non ha i capelli fucsia. Veste normale, giovane, ma non porta i catenoni e non sfoggia i rolex. Ha un taglio di capelli discutibile, ma se ce lo presentasse in casa nostra figlia non daremmo vita al remake della famosa scena delle olive greche di Mario Brega (io sì, ma è un’altra faccenda).

Quindi il nome e l’aspetto. Ok. Ma se uno riuscisse a tenere tre album in top 20 a vita e riempisse l’Olimpico nell’estate dei tour flop, per di più a ventitrè anni, solo per nome e aspetto, beh, meriterebbe il Nobel per la Chimica, come minimo. E qui subentra il terzo aspetto, in questo caso, terzo datur, la musica. O meglio, le canzoni. Ultimo scrive canzoni. Sembra una ovvietà, ma così non è. Perché, e questo invece è ovvio e evidente, siamo in un periodo storico in cui le canzoni sono andate a puttane. Nel senso che ne escono a decine e centinaia, ma sono spesso tutto fuorché canzoni. Sono basi, quasi tutte uguali, su cui qualcuno dice cose, spesso dando una interpretazione rigida del verbo dire, o sono giri semplici, che so?, un reggaeton, sui cui si canticchia qualche cazzata. Musica usa e getta, o per dirla con parole mia, musica demmerda. Nessuna conoscenza musicale da parte di chi le compone, e già dire compone è un parolone, o conoscenza musicale da parte di chi la compone, perché, per dire, un Dario Faini al secolo Dardust ha fatto il Conservatorio, ma conoscenza musicale tenuta debitamente da parte, per dar vita a quei soliti tre accordi e i conseguenti striminziti giri armonici, sempre quelli, e grazie Dio che almeno ci sono.

Il piano aiuta un certo tipo di sviluppo armonico, e Ultimo lo usa, cantandoci con una voce che magari non è esattamente precisissima, anzi, non lo è quasi mai, ma è decisamente empatica

Ultimo fa altro. Ultimo scrive canzoni e le scrive col piano. Ora, esiste una teoria, e se pensiamo a Paul Mc Cartney possiamo anche capire da chi arriva, che dice che il modo migliore per comporre una canzone è farlo usando il basso per accompagnarsi. Perché il basso, a differenza di chitarra e pianoforte, solitamente strumenti scelti dai compisitori, non ci spinge naturalmente verso determinati giri, lascia più spazio alla voce di cercare soluzioni melodiche e armoniche, in sostanza. Come dire che andando a fare una gira in montagna è meglio non usare i sentieri battuti, se vogliamo vedere panorami mai visti prima, con la sola differenza che in musica non si corrono rischi di cadere in unos strapiombo o di perdersi nei boschi, al massimo di fare brutte canzoni. Ultimo scrive la sue canzoni al piano, e questo in teoria si sente, perché le sue canzoni, che fanno ricorso a una sorta di rap, quindi sono anche piuttosto contemporanee, sono molto classiche, alla Venditti, per intendersi, o alla Tiziano Ferro quando scrive le ballate che girano bene, da Non me lo so spiegare a Ero contentissimo.

Il piano aiuta un certo tipo di sviluppo armonico, e Ultimo lo usa, cantandoci con una voce che magari non è esattamente precisissima, anzi, non lo è quasi mai, ma è decisamente empatica, trasmette emozioni e le trasmette in maniera diretta.

E qui sta la seconda parte fondamentale delle canzoni che scrive, Ultimo tende a cantare canzoni, formalmente ben scritte, che puntino al cuore della gente. Non ha vergogna, per dire, a intitolare il suo pezzo inedito, presentato a chiusura del concerto all’Olimpico, Poesia per Roma. Uso la parola vergogna non per fare del facile sarcasmo, provare a fare quello che potrebbe venir etichettato come radical chic in un pezzo che parla di Ultimo sarebbe una sorta di suicidio plateale, tipo il tizio che si è andato a schiantare anni e anni fa sul Pierellone con un aereo privato, e io non ho intenzione di suicidarmi.

No, parlo di vergogna inteso come nel senso di pudore. Ultimo scrive quella che ai suoi occhi è una poesia e, in maniera didascalica, la chiama poesia. Ultimo ritiene di essere stato in qualche modo maltrattato a Sanremo, e manda a cagare tutti, a partire da chi gli ha detto stronzo sul palco della Sala Stampa. Ultimo canta i sentimenti e li chiama sentimenti, non li maschera. Mica è un caso, infatti, che su quel palco, con lui, abbia chiamato sì Fabrizio Moro, suo fratello maggiore, ma anche Antonello Venditti, di cui è destinato a seguire le orme. Chiaro, Venditti appariva, almeno a inizio carriera, più colto di Ultimo. Era anche un po’ meno introverso.

Sessantaquattromila persone in uno stadio io ce le vedrei a cantare canzoni un po’ meno scontate

Ma anche il pubblico era diverso. Perché Ultimo, anche questo va detto a gran voce, non è arrivato tanto a prendersi il pubblico che voleva sentire canzoni cantate, melodiche, sentimentali nel senso bello del termine, quello per intendersi di Tiziano Ferro, recentemente apparso un po’ appannato, ma si è andato a prendere anche quello, sempre per dire, dei Modà, nel mentre fermatisi per quattro anni e ora in grande apprensione per un ritorno che sicuramente non ha i crismi che ci si poteva immaginare. Ultimo è una sorta di neomelodico nazionale, cioè che punta a tutti quelli che vogliono sentire una canzone che un tempo poteva aver scritto un Baglioni, un Eros Ramazzotti. È un cantautore, quindi ha una sua poetica precisa, spalmata su tutta la sua produzione, non deve ricorrere a altri, e ha anche un modo di interpretare le canzoni che funziona, arriva.

Detto ciò, ma questo lo avrete già capito, il successo incredibile di Ultimo resta per me un mistero. Perché anche mettendo tutti i tasselli del puzzle al punto giusto rimango sempre perplesso quando vedo una massa ingente di persone appassionarsi a qualcosa che, provando a fare una analisi anche volante, non mi sembra poi così bella. Certo, Ultimo è più evoluto di chi fa itPop e decisamente meno involuto di chi fa trap. Chi a Sanremo festeggiava per la vittoria di Mamhood e ancora oggi pensa che sia stato lui a vincere, beh, mi sa che ha la capacità analitica di Mr Magoo. Ultimo è un musicista e ha dalla sua la giovane età, oltre una capacità unica di intereccettare quella che un network radiofonico ha giustamente chiamato la Very Normal People. Bravo lui.

Ma sessantaquattromila persone in uno stadio io ce le vedrei a cantare canzoni un po’ meno scontate. Sarò io, immagino, il problema, radical chic di merda e rosicone che non sono altro. Del resto neanche capisco come faccia la gente a votare Movimento 5 Stelle o Lega, non sono così arguto come mi piace dipingermi.

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