Con la scelta del presidente brasiliano Jair Bolsonaro di rifiutare gli aiuti economici appena decretati dai Paesi del G7 per l’Amazzonia scopriamo un nuovo, inquietante aspetto del sovranismo: il sovranismo ambientale, l’idea cioè che gli Stati abbiano potestà assolute sugli equilibri naturali – sull’aria, sull’acqua, sulle foreste – e che non esistano “patrimoni dell’umanità” ma solo risorse nella totale disponibilità dell’arbitrio nazionale.
Bolsonaro non è il primo a battere questa strada. Il ritiro di Donald Trump dagli accordi sul clima di Tokyo – una delle prime iniziative della sua presidenza – era in fondo improntato alla stessa logica. L’America ha il diritto di dare priorità al suo sviluppo. Se un certo tipo di sviluppo comporta conseguenze ambientali di portata planetaria, chissenefrega. Ciascuno si organizzi come può. E tuttavia Trump si riferiva al riscaldamento globale, che i Repubblicani Usa considerano una teoria indimostrata, frutto dell’estremismo ecologista.
Bolsonaro fa un passo in più perché il rogo dell’Amazzonia non è una teoria, è un fatto. Lo vediamo in tv. È concreto. Secondo l’Istituto nazionale di ricerche spaziali – che si basa su immagini satellitari affidabili al 90% – dall’inizio dell’anno ad oggi si sono persi circa 3700 chilometri quadrati di foresta, pari a circa un quinto del Galles; 1250 di questi sono scomparsi solo nei primi 22 giorni di luglio. Il dato mostra un aumento superiore al cento per cento rispetto allo stesso periodo l’anno scorso ed è uno dei peggiori negli ultimi anni.
I livelli di deforestazione brasiliani restano molto lontani dai ritmi degli ’80 e dei ’90, ma la presa di posizione del presidente apre un problema politico che va molto oltre la diatriba sulla vera entità dei roghi, sulle responsabilità, sull’acquiescienza governativa agli interessi dei coltivatori di soia.
Con Bolsonaro scopriamo un nuovo, inquietante aspetto del sovranismo: il sovranismo ambientale, l’idea cioè che gli Stati abbiano potestà assolute sugli equilibri naturali – sull’aria, sull’acqua, sulle foreste – e che non esistano “patrimoni dell’umanità”
Il Novecento ha consacrato l’idea che la potestà sull’ambiente, e in particolare su ambienti rari, di particolare pregio così come sulle specie in via di estinzione, fosse una responsabilità globale, qualcosa da condividere oltre i confini nazionali. Gli Stati hanno dovuto adeguarsi. Se la Cina oggi spende miliardi per tutelare i Panda dall’estinzione, se l’Africa ha limitato al minimo la caccia grossa e ha trasformato vaste aree in parchi, se in America non si può più sparare ai bisonti, se noi stessi – anche volendo – non potremmo spianare Venezia per farne un porto oppure demolire il Colosseo per farne un parcheggio, è perché l’idea di “bene comune” si è estesa ben oltre i limiti dei confini nazionali e degli interessi dei singoli governi. Se questa convinzione si affievolisce, se passa il principio che ciascuno è titolare assoluto del patrimonio delimitato dalle mappe politiche, torneremmo alla rapacità pre-novecentesca del dissennato inquinamento dei grandi fiumi, dell’industria senza controlli, dei fumi e dei veleni senza limiti, in nome di uno sviluppo economico che ciascuno si gestisce come gli risulta più conveniente.
I segnali di un’inversione di tendenza ci sono e sono molto potenti. Non solo Trump, non solo Bolsonaro, ma anche più minute questioni di casa nostra ci rivelano l’affermarsi di un’ostilità crescente verso i costi e gli impegni legati alla difesa dell’ambiente o quantomeno a un suo sfruttamento equilibrato.
L’ondata di irrisione contro Greta Thumberg è uno di questi segnali. Un altro è l’inesausta battaglia delle regioni del Nord per l’abbattimento di orsi e lupi reintrodotti vent’anni fa nei parchi nazionali con faticose operazioni di riequilibro della fauna. Sono cose piccole se confrontate col colossale problema amazzonico e tuttavia sono tutte collegate alla narrazione sovranista e ne indicano una precisa direzione ideologica: l’estensione dello slogan “padroni a casa nostra” agli animali, all’ambiente, all’aria e all’acqua.
Anche in Brasile la filosofia sembra la stessa. Bolsonaro ha respinto l’offerta del G7 giudicandola un’interferenza, addirittura un atto neo-coloniale, qualcosa che limita la sovranità nazionale e il suo diritto a intervenire o non intervenire come meglio crede. È una narrazione per molti versi suggestiva e proprio per questo potrebbe farsi strada nello scenario della crisi globale, tra governi in perenne affanno economico, stufi di sacrificare potenziali risorse alla difesa dell’ambiente: la gran parte dell’Europa sembra al momento immune, i movimenti verdi vincono ovunque, ma bisogna cominciare a stare attenti.