È la terza metamorfosi del movimento Cinque Stelle: dopo lo sturm und drang antiparlamentarista – i V Day e il Palazzo da aprire come una scatoletta di tonno – dopo il cartello di governo con la Lega di Salvini – segnato da accenti populisti e demagogici – siamo ora alla fase della compiuta istituzionalizzazione. Il Conte bis – che è l’esito ormai quasi scontato della serrata trattativa tra Pd e grillini – segna l’approdo del movimento alla sua costituzionalizzazione, all’assunzione di una fisionomia di partito di sistema. La stessa figura di Giuseppe Conte, l’artefice delle trattative con l’Europa e il regista del voto a Ursula von der Leyen, prologo in Europa di questa intesa giallorossa, incarna plasticamente l’ultima metamorfosi pentastellata.
Tuttavia occorre riconoscere che è stato Luigi Di Maio a rendere possibile l’esito – che non era scontato (e ufficialmente non lo è ancora) – di un governo Pd-Cinque Stelle a guida Conte. È utile ricordare la cronaca di queste ultime settimane. Alla vigilia della comunicazione di Giuseppe Conte in Senato tutto era ancora avvolto dalla più grande incertezza. Il timore che la mossa di Salvini potesse destabilizzare il movimento Cinque Stelle e spingere il paese al voto era acuto e giustificato. Di Maio, già in questa fase, aveva tuttavia subito puntato tutto su Conte: “Sei una perla preziosa” aveva scritto in un tweet, con toni quasi romantici, sapendo che il premier uscente avrebbe in sede parlamentare non solo attaccato Salvini, ma rilanciato la sua premiership.
Occorre riconoscere che è stato Luigi Di Maio a rendere possibile l’esito – che non era scontato (e ufficialmente non lo è ancora) – di un governo Pd-Cinquestelle a guida Conte
Nei giorni successivi Di Maio ha poi tenuto fermo su questo punto sfidando i veti del Pd zingarettiano e giocando di sponda con l’ala renziana dei dem che ha continuato a spingere perché cadesse ogni ostacolo alla nascita d’un governo di legislatura per evitare le elezioni e spedire Salvini all’opposizione. Contemporaneamente il leader pentastellato ha mantenuto aperti i due forni della trattativa, tenendo l’intendenza leghista sospesa a un filo di dialogo e di speranza che si potesse rimediare all’errore del Capitano così appannato da sbagliare tempi, modi e gestione della crisi. Bruciandosi anche l’ultima carta che aveva in mano: l’intransigenza rispetto alla scelta compiuta invece rinnegata nella petulante richiesta ai Cinque Stelle di ripensarci e di rimettere in moto il carro gialloverde. Una china lungo cui Salvini è arrivato a offrire a Di Maio persino Palazzo Chigi.
Intanto Di Maio alzava il prezzo ottenendo che Zingaretti alla fine cedesse su Conte, in cambio di una pesante contropartita nei ministeri chiave, ma riuscendo a portare sulle sue posizioni anche i vertici del movimento: Beppe Grillo – sempre incline per la verità a un’alleanza di centro sinistra – e il più restìo Davide Casaleggio, preoccupato che l’intesa con il Pd – utile a salvare la leadership di Luigi di Maio – possa consumare il brand pentastellato.
D’altra parte che Di Maio avesse preso le misure al palazzo dimostrando una certa disinvoltura e duttilità nel muoversi tra le sue anse e le sue insidie lo si era capito nei frequenti momenti di crisi con il suo alleato Salvini e resistendo alla cocente sconfitta delle europee, riuscendo a mediare sia dentro il movimento sia nei confronti della Lega che s’era messa in testa di travolgerlo. Questo senza mai smettere di tenere aperto un corridoio di continua interlocuzione con il Quirinale. Infine Di Maio cogliendo con tempismo l’opportunità che gli dava la crisi di governo innescata dall’incauto Salvini ha capitalizzato due fattori che hanno costituito le sue posizioni di forza.
Il primo è l’istinto di sopravvivenza della corposa pattuglia parlamentare Cinque Stelle che Di Maio ha saputo saldare alla sua figura e a quella di Conte. Il secondo è l’occupazione del centro che nello schema proporzionalista dentro cui si gioca la partita parlamentare conferisce il più grande vantaggio strategico. E non è un caso, come si è avuto già modo di scrivere, che a tessere i fili della ricomposizione della crisi sia stata tutta l’intendenza centrista-democristiana disseminata in parlamento a cui Di Maio non ha mai fatto mancare in questi giorni segnali inequivoci.
Certo il Conte-bis avrà per Di Maio e il movimento Cinquestelle un prezzo. La discontinuità che Zingaretti chiedeva con il no a Conte verrà tradotta con un opa su molti ministeri chiave del Pd
Certo il Conte-bis avrà per Di Maio e il movimento Cinque Stelle un prezzo. La discontinuità che Zingaretti chiedeva con il no a Conte verrà tradotta con un opa su molti ministeri chiave del Pd che già reclamano Difesa, Economia, Infrastrutture, Esteri e Sanità oltre a un vicepremier unico (si fa il nome dell’attuale vicesegretario Pd Orlando). Tuttavia l’intesa verso cui si marcia tra Pd e Cinque Stelle spingerà i grillini su posizioni più consone al Di Maio style, isolando probabilmente sempre di più le componenti più populiste incarnate da Di Battista e dalle frange lunatiche del Movimento. Posizioni quelle che oggi diventano centrali che riguardano lavoro, legalità ambiente.
Certo, restano in piedi tutte le differenze e le insidie. Nei dem è sempre alta la diffidenza verso i renziani da cui si temono imboscate fra qualche mese, quando il governo sarà nel guado e Renzi tenterà di riguadagnarsi un ruolo da assoluto protagonista fuori o dentro il Pd, magari in polemica con il governo della cui necessità oggi è il più accanito sostenitore. Nei Cinquestelle sono enormi le perplessità, soprattutto in certi settori del partito e nella base, sulla possibilità di saldare un’intesa con quelli che fino a ieri erano stati eletti come nemici principali.
Tuttavia proprio questi timori e queste rispettive debolezze potrebbero portare a un governo obbligato a stringere su temi specifici e concreti accordi non generici ma programmatici. Un governo dunque non basato su un contratto scritto col manuale Cencelli delle reciproche esigenze ma sulla sintesi d’una intesa programmatica. Un governo molto politico dunque, che potrebbe costituire l’embrione di un nuovo e inatteso centrosinistra