Buddha sosteneva che le parole “hanno il potere di distruggere e di creare” e mai come oggi abbiamo prove evidenti che si tratti di un potere infinito e stravolgente. Una parola può cambiare un evento, una situazione, un sentimento, ma anche la nostra vita, il nostro essere e l’intero assetto del nostro modello sociale. Con le parole si può cambiare l’intera visione del mondo. Con le parole si possono suggestionare le masse e i singoli orientandoli verso modelli comportamentali differenti, anche diametralmente opposti. Li si può trasportare verso magnifici sogni propulsivi o viceversa verso orribili incubi.
Leggere correttamente il lessico contemporaneo è importante per comprendere a pieno le sfumature del proprio tempo. Per questa ragione da sempre ho l’abitudine di valutare i neologismi che appunto sono il segnale tangibile della traiettoria che l’umanità ha intrapreso nella strada della propria evoluzione. Un fenomeno già manifesto e più volte denunciato oltreoceano ma che a casa nostra fatichiamo a riconoscere, è quello dell’ageismo, eppure questa parola è stata coniata qualche decennio fa, nel 1969, dal gerontologo statunitense Robert N. Butler, per indicare il delinearsi di un atteggiamento di discriminazione verso individui anziani, in assonanza con le parole razzismo e sessismo. Sia la parola sia il concetto di “ageism” hanno impiegato ben trenta anni per arrivare in Europa. Prima sono stati accolti nel vocabolario francese come âgisme e ben più tardi, nel 2016, in quello italiano. Perché ne siamo immuni?
Al contrario, se appunto se ne parla ancora poco, è per via del fatto che colpisce prevalentemente le donne. Come spiega la scrittrice americana Ashton Applewhite nel saggio “Il bello dell’età”, l’ageismo è uno stereotipo che fa il paio con “rottamazione”, termine che il linguaggio della politica e del giornalismo ha mutuato prelevandolo dal mondo degli oggetti, delle automobili per essere maggiormente precisi, per abbatterlo su quello delle persone. Frasi apparentemente innocue del tipo che sentiamo dire e ci ascoltiamo dire tutti i giorni, quali ad esempio “come porti bene i tuoi anni”, fanno inizialmente piacere perché gratificano la vanità estetica delle persone, ma a lungo andare sedimentano nelle nostre abitudini di pensiero l’idea che si sia in forma, quindi accettati, quindi utili, quindi performanti, solo dimostrando un’età inferiore a quella reale.
Se l’indice medio a livello mondiale per quanto concerne l’equità di salario a parità di lavoro fra maschi e femmine è del 64,5%, in Italia siamo fermi al 51,2%.
Perché ti dico tutto questo? Perché vorrei partire da qui per mettere l’accento su un tema centrale di cui tutti parliamo ma che nessuno ha ancora voluto comprendere appieno: quello del gender gap di cui l’ageismo è solo uno dei tanti derivati. Il quadro tracciato recentemente dalla Commissione Europea ci racconta uno scenario estremamente sconfortante in quanto pur essendo il dibattito sulla questione della parità di genere molto acceso, il livello retributivo, che è uno dei principali indicatori di come e quanto le parole alla fine diventino fatti sul piano politico, sociale ed economico, denota ancora un netto divario fra maschi e femmine. Un gap che riguarda il Vecchio Continente nel suo insieme in cui l’Italia ha il ruolo da protagonista.
Se l’indice medio a livello mondiale per quanto concerne l’equità di salario a parità di lavoro fra maschi e femmine è del 64,5%, in Italia siamo fermi al 51,2%. (126° posto nella classifica del World Economic Forum). Sebbene dal 2008 a oggi le percentuali di occupate e di forza lavoro femminile siano cresciute, il tasso di disoccupazione femminile risulta ancora fra i più alti del mondo: il 12,5%. Il che ci colloca al quarto posto su 34 paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
Secondo Sigmund Freud, le parole originariamente erano degli incantesimi. Hanno conservato ancora oggi molto dell’antico potere magico visto che sono il mezzo generale con cui gli uomini si influenzano reciprocamente. Dovremmo partire proprio dal nostro lessico per dare forma e sostanza al cambiamento di prospettiva che il tema richiede. E guarda che non sto parlando di political correctness né proponendo quella sorta di conformismo lessicale che ne ha minato gli intenti pur nobili. Parlo di un impegno personale, sistematico e volontario a modificare positivamente i propri modelli linguistici per orientare quelli collettivi, ciascuno nella propria sfera di relazioni. Modelli linguistici condivisi possono incidere potentemente sul piano realizzativo delle idee in essi contenuti. Una lingua comune che non riconosca la discriminazione di genere supporta l’abolizione pratica della disparità.