A metterla giù piatta, la rivoluzione degli Ombrelli del 2014 come le proteste di queste settimane, e come ogni altro sussulto passato presente e futuro, vogliono dire una cosa sola: Hong Kong non ha alcuna voglia di diventare Cina. E poco c’entrano le ragioni specifiche per cui, di volta in volta, fiumi di giovani si riversano nelle strade sfidando la polizia, i gas lacrimogeni, la galera e il sempre incombente intervento delle forze armate della Cina continentale.
Nel 2014 i manifestanti chiedevano il suffragio universale, pur sapendo che la Dichiarazione congiunta sino-inglese, firmata nel 1984 per regolare il ritorno della colonia alla Cina poi avvenuto nel 1997, stabilisce che il Governatore dev’essere nominato dal Governo centrale di Pechino, il quale ha anche il diritto di mettere il veto alle nomine decise dal Governatore stesso.
Allo stesso modo, le attuali proteste non si giustificano certo con il progetto di legge sulle estradizioni, che i legislatori di Hong Kong vorrebbero estendere anche alla Cina. Il progetto riguarda solo delitti come l’omicidio e la violenza sessuale, non sfiora i reati politici e meno che meno quelli a sfondo economico e fiscale.
Chi teme la legge perché aprirebbe la porta all’estradizione dei dissidenti rifugiati a Hong Kong, forse non sa che la polizia cinese non ha bisogno di certe delicatezze perché da anni provvede alla bisogna in altri modi. Per esempio con i rapimenti.
Hong Kong non vuole diventare cinese per una lunga serie di ottime ragioni. Ad esempio i suoi abitanti sono molto più ricchi dei cinesi del continente: quasi 40 mila dollari di reddito annuo pro capite contro 7 mila
Hong Kong non vuole diventare cinese per una lunga serie di ottime ragioni. A dispetto delle tante limitazioni previste dalla Dichiarazione del 1984, la sua popolazione (meno di 7,5 milioni di persone) gode di diritti che i cinesi della terraferma ancora si sognano. Di fatto si autogoverna (con l’eccezione di quanto riguarda Difesa e Politica estera), il suo sistema giudiziario è tuttora basato sulla Common Law britannica, la libertà d’impresa, di culto, di associazione, d’espressione e di parola forse non è assoluta ma è largamente garantita. Negli anni, Hong Kong ha perso “peso” nell’economia cinese: nel 1997, quando fu restituita alla Cina, l’ex colonia valeva il 18% dell’intero Pil cinese, oggi solo il 3%.
Ma i suoi abitanti restano molto più ricchi dei cinesi del continente: quasi 40 mila dollari di reddito annuo pro capite contro 7 mila. In queste condizioni voi avreste fretta di diventare cinesi a tutti gli effetti, come dovrebbe appunto succedere nel 2047? Pechino, al contrario, ha una fretta dannata di inglobare Hong Kong una volta per tutte e di farla finita con la menata di “Una Cina, due sistemi”. Quando l’aveva inventato Deng Xiaoping, nel 1980, lo slogan sembrava una gran figata. Ma in questi trent’anni la Cina si è messa a correre e, soprattutto da quando regna Xi Jinping, di tempo da perdere con le sottigliezze ne ha poco.
Agli occhi di Pechino, oggi Hong Kong non è più solo una lucrosa piazza finanziaria ma un tassello decisivo per i piani di sviluppo che sono alla base della sfida economica, tecnologica e infine politica che la Cina intende portare al dominio globale degli Usa. Nel febbraio di quest’anno è stata resa pubblica la strategia della cosiddetta Greater Bay Area, che vuol far confluire nove città della Cina continentale e due regioni amministrative speciali (Hong Kong, appunto, e Macao) in un unico enorme spazio in cui concentrare innovazione tecnologica, servizi finanziari, turismo e manifattura ad alto valore aggiunto. Una specie di piattaforma per incrementare l’apertura internazionale dell’economia cinese.
In poche parole, Pechino vorrebbe fondere in un’unica macchina da soldi la Borsa di Hong Kong, le start up di Shenzen, le manifatture di Guangzhou e le attrazioni di Macao e Zhuhai. Per la gioia della classe media cinese e asiatica in genere e come supporto al progetto della Nuova Via della Seta.
Di questo stallo hanno approfittato in queste settimane i giovani di Hong Kong. Ma sono i primi a sapere che non durerà
Hong Kong è un tassello decisivo del progetto. Basta vedere la quantità di opere che la riguardano. Nel gennaio del 2017, il suo Governo ha firmato con quello di Pechino un accordo per la realizzazione di Lok Mau Chau Park, un parco tecnologico proprio al confine con l’area di Shenzen. L’anno scorso è stato inaugurato il ponte che collega Hong Kong a Zhuhai e Macao, tagliando i tempi di percorrenza tra le città. E sempre nel 2018 è stata inaugurata anche la ferrovia ad alta velocità che unisce Hong Kong a Shenzen e Guandong, di fatto inserendo l’ex colonia nella vasta rete dei collegamenti veloci della Cina continentale.
Sono molti, anche tra i dirigenti cinesi, quelli che si rendono conto dei rischi. In primo luogo, snaturare in tal modo le caratteristiche speciali di Hong Kong e Macao, minando così alla radice anche le prospettive dell’intero progetto Greater Bay Area. Ma tant’è, la Cina corre e tutto sembra disposta a fare tranne che aspettare il 2047 per mettere a profitto il controllo acquisito su Hong Kong. Lo ha ben capito Donald Trump, che non ci ha messo un minuto a collegare le proteste di Hong Kong, e l’eventuale repressione di Pechino, con la guerra dei dazi che oppone Usa e Cina. E anche Xi Jinping si rende conto dell’impatto che un intervento del suo esercito potrebbe avere su tutti i Paesi ai quali ora la Cina si sforza di mostrare un volto benevolo, collaborativo, quasi paterno, in nome del commercio e del reciproco benessere.
Di questo stallo hanno approfittato in queste settimane i giovani di Hong Kong. Ma sono i primi a sapere che non durerà. Come scriveva Karl Marx nel Manifesto del Partito comunista (1872), “la borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali”. Resta adesso da capire se vincerà la rivoluzione libertaria dei vecchi borghesi di Hong Kong o quella nazionalista del nuovi borghesi della Cina continentale.