Rasoi politiciEstetica e proteste: quando i camerieri parigini scioperavano per poter portare i baffi

All’inizio del secolo solo chi apparteneva alle classi più abbienti poteva farseli crescere. Gli altri dovevano rasarsi. Era una norma molto rigida che umiliava tutti quelli che provenivano da una bassa estrazione sociale

da Wikimedia

Paghe più alte e qualche ora di riposo al giorno. Ma soprattutto, i camerieri parigini in sciopero nel 1907 protestavano per potersi far crescere i baffi. Una richiesta che, oggi come oggi, potrebbe sembrare buffa. Cosa impediva loro di farlo? E perché dovevano chiedere il permesso al datore di lavoro? Eppure, nonostante le apparenze, si trattava di una cosa seria: dietro al codice estetico che li obbligava a rasarsi tutti i giorni (altrimenti il capo li avrebbe licenziati) vigeva una rigida norma sociale, diffusa e accettata da quasi tutti: i baffi li portano solo le persone che contano, cioè i ricchi, gli aristocratici, gli alti borghesi. I servitori e i valletti (e i camerieri dovevano occupare quel ruolo, nei confronti di qualsiasi cliente si fosse presentato al ristorante) no. L’appartenenza sociale di una persona doveva essere chiara fin dal primo sguardo. E i baffi svolgevano quel compito alla perfezione.

La moda era derivata dall’esercito: i baffi erano uno dei tratti (obbligatori) che distingueva gli ufficiali dai soldati dei ranghi più bassi. Derivavano dallo stile degli ussari e suggerivano virilità, valore, maturità. Erano così importanti che chi non riusciva a farli crescere era costretto a servirsi di quelli finti.

Lo stesso avvenne nella società civile, regolata da gerarchie sociali non meno severe. Come fece dire a un suo personaggio Guy de Montpassant, “un uomo senza baffi non è più un uomo”. E lo intendeva in modo letterale. Chi soffriva di più per questi obblighi erano proprio i veterani di guerra, costretti a tagliarli – cioè a rinunciare ai simboli del loro orgoglio e del loro valore sul campo– soltanto per poter trovare lavoro una volta tornati dal fronte. Essere senza baffi significava essere infantilizzati, evirati, umiliati nei confronti della famiglia, dei vicini e degli amici. Una cosa che non si poteva sopportare: e così cominciarono le proteste.

Gli scioperi vennero repressi con durezza dalle forze dell’ordine, ma la reazione non imoedì alla questione di finire sui giornali. I più conservatori condannavano le dimostrazioni (come sempre) ma anche le richieste: oggi protestano per avere i baffi, scrivevano su Le Gaulois, ma tra dieci anni, quando la moda sarà cambiata e i ricchi terranno le guance lisce, protesteranno per poterseli tagliare. L’assunto del ragionamento era che, peli superflui o meno, le differenze di classe continueranno a esistere sempre.

Altri notavano come, permettendo loro di tenere i baffi, sarebbe stato più difficile distinguerli dalle persone perbene una volta che finiscono di lavorare. Altri ancora, invece, accampavano questioni di igiene: “Davvero vogliamo che tra noi e il nostro cibo ci siano di mezzo i loro baffi? Siamo sicuri che sappiano curarli e tenerli puliti?”.

Ogni scusa, insomma, sembrava buona. Alla fine però le proteste rientrarono. Molti riuscirono a strappare qualche concessione dai datori di lavoro, che in molti casi cedettero proprio sul diritto di portare baffi (e non sulle paghe o sugli orari, come era ovvio). I sindacati, che avevano appoggiato la loro battaglia, li rimproverarono proprio per questo. Ma forse, per quel momento, ciò che contava di più era una questione di identità. E non di denaro e tempo libero.

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