Cultural StereotypeAnche quest’anno è ToDays il festival della fine dell’estate

Hozier, Nils Frahm, Jarvis Cocker, Johnny Marr, Cinematic Orchestra, Bob Mould, Ride, Spiritualized, Low, Deerhunteer e tantissimi altri. Anche quest'anno il ToDays Festival fa sul serio

In questo paese si usa spesso a proposito la parola “festival” per definire anche le più semplici (e rispettabilissime, sia chiaro) rassegne di concerti che per tutta l’estate percorrono lo stivale. Il festival, però, è un’altra cosa. È un momento totalizzante che vuole creare uno spazio nuovo e costruire qualcosa di più simile all’esperienza che non la fruizione di un prodotto culturale. Ce ne sono — e tanti — anche da noi, ma non si tratta solo di vedere un artista sul palco. Si tratta di condividere uno spazio, di vivere un luogo e di sentirsi, anche in modo superficiale, parte di una comunità.

A Torino siamo particolarmente fortunati, perché di rassegne musicali che possono essere definite a tutti gli effetti un “festival” ce ne sono (almeno) tre: il Club To Club, il Kappa Future Festival e il ToDays. A quest’ultimo, arrivato alla quinta edizione, il consueto onere di chiudere l’estate concertistica italiana facendo vivere e suonare gli spazi del periferico quartiere di Barriera di Milano (sì, si chiama veramente così) con un cartellone indie capace di guardare alla contemporaneità e, al tempo stesso, fare i conti che la storia di una città, Torino, che è sempre stata attenta all’underground e alle controculture. Dal 23 al 25 agosto, si alterneranno sul palco pezzi grossi come Hozier (quello di Take me to church, per capirci), Jarvis Cocker dei Pulp, Nils Frahm (uno dei compositori più apprezzati del panorama contemporaneo) e la Cinematic Orchestra.

Ma è nel suo rapporto con la storia, dicevamo, che Torino riesce a dare il meglio di sé. Il festival riesce a guardare senza nostalgia alla natura autentica della musica alternativa grazie alle seconde giovinezze di artisti come Johnny Marr (il chitarrista degli Smiths che dopo aver pubblicato Call the Comet sta vivendo un vero e proprio momento di gloria) e Bob Mould degli Hüsker Dü (che proprio a Torino nel 1987 fecero un concerto memorabile che chi c’era ancora ricorda con le lacrime agli occhi), oppure portando sul palco i Ride, pezzi grossi dello shoegaze anni Novanta chiamati a sostituire i forfaittari Beirut (due su due, l’anno scorso toccò ai My Bloody Valentine rinunciare al festival, degnamente sostituiti dai Mogwai) e gli Spiritualized, autori di uno space rock epico e commovente. Oppure i Low, che da qualche anno stanno portando in giro un’idea di musica scarnificata e rigorosissima, o i Deerhunter, che tra le band contemporanee sono tra le più interessanti e innovative (e che con Torino hanno un rapporto tutto particolare avendoci suonato già un bel po’ di volte).

Nessun italiano quest’anno, almeno tra i principali. Come ha detto in un’intervista per Indie For Bunnies il direttore artistico Gianluca Gozzi, “in un momento in cui diciamo ovunque ‘prima gli italiani’ noi cerchiamo di fare la differenza”. Un tentativo di guardare al mondo, mischiando generi e attitudini (ci sono anche gli Art of What, un tempo noti come Art of Noise, per dire) che potrebbe fare solo bene in un paese che rischia di chiudersi tra tentazioni sovraniste e un approccio alla musica ormai privo di qualsiasi tensione e qualsiasi dimensione “politica” in senso più ampio.

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