La guerra dei dazi è già guerra tecnologica e adesso diventa guerra delle valute. Il renminbi, la moneta del popolo, è sceso ieri al suo livello più basso dal 2008, ha sfondato il pavimento di sette dollari a metà pomeriggio in Asia e ha chiuso a 7,0324 sul dollaro. Furioso, Donald Trump ha accusato Pechino di manipolare la valuta. La Bank of China sostiene che è tutta colpa della minaccia di aumentare i dazi di un altro 10% su un consistente numero di merci. In ogni caso l’Impero di Mezzo si difende, come per un riflesso pavloviano, compensando almeno in parte lo squilibrio commerciale. Su Wall Street la notizia ha avuto un rimbalzo pesante con il Dow Jones che ha perso subito 500 punti. In Europa il Ftse 100 ha ceduto il 2,5%, il Cac 40 il 2%. La borsa di Milano, nella sua piccolezza, ha ceduto l’1,3%, ma in Italia il circo politico-mediatico, impegnato sul quorum, sul decreto bis, sulle moto d’acqua, sulle troniste tricolore dei bagni Papeete, non se ne è curato. L’Istat, del resto, dopo aver rivisto i criteri dei propri sondaggi ha visto un “lieve miglioramento” anche se pur sempre a zero virgola qualcosa.
La Cina che all’inizio della grande crisi aveva un attivo della bilancia dei pagamenti superiore al 6% del prodotto lordo, ora è già scesa allo 0,2%, ma all’amministrazione americana non basta, vuole che vada in rosso. Ciononostante, la bilancia Usa non migliora e resta ancorata a un deficit del 2,5%. Le cifre non contano, prevale la propaganda. Politique d’abord, è il primato della politica, bellezza. E politico è lo scontro che molti già chiamano la nuova guerra fredda. Il vecchio ordine geopolitico in Asia è saltato, quell’equilibrio costruito da Kissinger e Nixon che dagli anni ’70 in poi è durato fino a Barack Obama, viene ribaltato da un presidente che ha scardinato quel che ha fatto il suo predecessore (si pensi all’Obamacare o agli accordi di Parigi sul clima), e vorrebbe ribaltare l’intero assetto liberal-democratico sia nella sua variante progressista (Carter-Clinton-Obama) sia in quella conservatrice (Nixon-Reagan-Bush padre e figlio).
Come spesso succede nella storia i grandi cambiamenti maturano in silenzio poi si realizzano in un battibaleno
Non c’è voluto molto: come spesso succede nella storia i grandi cambiamenti maturano in silenzio poi si realizzano in un battibaleno. Nella seconda metà degli anni ’40, l’alleanza tra Usa e Urss è diventata guerra fredda, ma allora la responsabilità della Russia era evidente: Stalin aveva fatto cadere sull’Europa una cortina di ferro, come disse Winston Churchill. Oggi è più difficile tracciare una linea retta per dividere buoni e cattivi. Che Pechino non rispetti le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio dove era entrata senza contropartite nel 2001, è un dato di fatto. Ma che Washington risponda in modo sgangherato soprattutto perché vuole agire da solo persino contro i suoi storici alleati, è anch’esso innegabile. E si sta trasformando in un errore gravido di conseguenze negative.
Sul Financial Times Gideon Rachman ricorda che a luglio le forze aeree cinesi e russe hanno condotto il primo pattugliamento congiunto, costringendo l’aviazione sud coreana a sparare una serie di salve d’avvertimento per impedire una violazione dello spazio aereo. Le tensioni in tutto lo scacchiere si moltiplicano. tra Cina e Taiwan o con il Vietnam, mentre la crisi di Hong Kong può degenerare in una nuova Tien An Men. Il Giappone che si sente minacciato e non protetto dagli Usa, si riarma. È chiaro che la Cina, nonostante abbia una distanza siderale dagli Stati Uniti sul piano militare e sia ancora lontanissima dal minacciare il primato tecnologico a stelle e strisce, non accetta più di giocare un ruolo secondario. La Russia di Putin si inserisce a modo suo in questo nuovo grande gioco e così tutti gli altri attori.
In questi tre anni la strategia dI Trump non ha dato grandi frutti, ha smontato, frantumato, ma non ha costruito nulla. Il rischio adesso è che vada troppo in là, a muso duro sì, ma contro il muro
Xi Jinping vuole sfidare il predominio americano e utilizza una gamma di strumenti, non tutti efficaci. La svalutazione, per esempio, può danneggiare la stessa Cina che si è riempita di titoli in dollari. Donald Trump ha spezzato i vecchi legami sino-americani rifiutando la dottrina Kissinger senza peraltro sapere chiaramente con che cosa sostituirla. Ma è solo Trump? O il presidente interpreta una pulsione profonda? Oggi siamo di fronte a un’America che si isola perché non vuole più far fronte alle responsabilità che spettano alla prima potenza militare ed economica del mondo. Ma, frustrata dalle conseguenze e dall’impossibilità di rinchiudersi davvero in se stessa, rischia di trasformarsi in un lone rider, un cavaliere solitario. È un atteggiamento che non riguarda soltanto la destra conservatrice, come si capisce dai dibattiti tra i potenziali sfidanti democratici. È stato proprio Obama, del resto, in una sorta di impeto multipolare a concludere che gli Stati Uniti potevano ridimensionare il loro impegno sui fronti caldi e progressivamente lasciare ad altri il compito di stabilizzare le crisi: non più uno sceriffo globale, ma tanti poliziotti locali. Anche questo lo aveva teorizzato per primo Kissinger del quale Obama ascoltava volentieri i consigli.
Il nuovo complesso militar-industriale che sostiene Trump, quello nazionalista che oscilla tra isolazionismo e prove muscolari in splendida solitudine, ha in mente un nuovo ordine, un nuovo paradigma alternativo a quello liberale che ha rifiutato? America first è un vuoto slogan. C’è arrosto sotto quel fumo? Walter Russel Meade ha scritto sul Wall Street Journal che l’America non è pronta per una nuova guerra fredda. Soprattutto perché non ha capito la Cina né, in concreto, che cosa essa vuole. E ha citato Sun Tzu: se conosci te stesso e il tuo nemico non avrai timore del risultato di cento battaglie; se conosci te stesso e non il nemico, ogni vittoria si trasformerà in sconfitta; se non conosci né l’uno né l’altro soccomberai sempre. Per Meade l’America di Trump non conosce né se stessa né il suo nemico. Anche perché, bisogna aggiungere, oggi la competizione non è più bipolare, ma almeno tripolare, una variante fondamentale rispetto alla strategia sperimentata nella guerra fredda.
I trumpiani di tutto il mondo (non esattamente uniti, non ancora) sostengono che nessuno (tanto meno i liberal) ha capito la strategia di un presidente che da uomo d’affari imposta le sue relazioni internazionali sul negoziato a muso duro. È la logica del mercato su scala generale, interna come internazionale. In questi tre anni questa strategia non ha dato grandi frutti, ha smontato, frantumato, ma non ha costruito nulla. Il rischio adesso è che vada troppo in là, a muso duro sì, ma contro il muro.