Che vada a finire male, anzi malissimo, è ormai una certezza. Si tratterà di vedere se la Gran Bretagna sia destinata all’implosione statuale – come già si avverte a Edimburgo e a Belfast – o se si “limiterà” a pagare un prezzo sempre più alto : fuga di imprese, banche e capitali, deprezzamento della sterlina, tensioni politiche e sociali, crollo del mercato immobiliare. Secondo tutti gli indicatori, le conseguenze saranno drammatiche, ma ancora più costoso sarà – se mai ci sarà – il rinsavimento, ossia la ricostruzione nel tempo di accordi, inevitabilmente al ribasso, con la Comunità Europea.
Il sovranismo populista si rivolta dunque contro sè stesso, danneggia la propria comunità, è obbligato per sopravvivere a forzare la mano, a umiliare le istituzioni, a cercare scorciatoie di potere utilizzando la formula più abusata e fatua, “in nome del popolo”. La tendenza riscontrabile in diversi Paesi europei, dall’Ungheria di Orban all’Italia di Salvini, ha subito una straordinaria variabile in Gran Bretagna. Qui infatti i populisti hanno la voce di un leader conservatore e liberale e stravolto l’anima di un partito conservatore che ha in sostanza rinnegato la propria identità e la propria storia.
La più antica e solida democrazia parlamentare vive di conseguenza uno psicodramma in cui vengono meno tradizioni e certezze secolari, consolidate dalle istituzioni, dalla prassi del common law e da una mentalità collettiva di solito incline a sdrammatizzare
La più antica e solida democrazia parlamentare vive di conseguenza uno psicodramma in cui vengono meno tradizioni e certezze secolari, consolidate dalle istituzioni, dalla prassi del common law (la Gran Bretagna non ha una costituzione scritta), da una mentalità collettiva di solito incline a sdrammatizzare e oggi propensa a rabbiose reazioni di piazza.
L’interesse comune, l’arte del compromesso, l’approccio pragmatico e al tempo stesso rispettoso di tutte le libertà culturali, civili, religiose, di costume e di stili di vita sono caratteristiche peculiari che mostrano la corda rispetto all’opzione nazionalista/populista, all’estremismo dei partiti, alla spregiudicatezza di alcuni leader combinata a una buona dose di dilettantismo. Persino il ruolo del Parlamento, ostaggio di sondaggi e lobby contrapposte, e il carisma della Regina, dopo che ha dato il suo assenso alla sospensione dei lavori voluta da Johnson, sono contestati. La Scozia minaccia apertamente un referendum indipendentista e pro europeo. In Irlanda del Nord potrebbero riaccendersi le micce del conflitto nazionalistico religioso se non verrà regolarizzata la questione del confine con la Repubblica d’Irlanda.
Ma prima di immaginare come andrà a finire, non è inutile chiedersi come e perchè si è arrivati a questo punto. Non è sufficiente riconsiderare la mossa avventuristica di Cameron di indire un referendum, l’inconcludenza disperante di Theresa May nel costruire un’uscita morbida e onorevole e ancora di più la spregiudicata corsa verso il baratro condotta da un signore educato a Eton e Oxford, biografo e ammiratore di Churchill, formidabile oratore con enfasi e citazioni di Shakespeare, brillante giornalista e cinico produttore di balle spaziali finalizzate al “successo” della sua strategia : Boris de Pfellel Johnson, l’uomo che passerà alla Storia per avere sostanzialmente distrutto la Gran Bretagna così com’è oggi.
Probabilmente, a breve, non si parlerà più nemmeno di Brexit o di Gran Bretagna, ma di piccola Inghilterra, di Stati nazionali ex britannici che in ordine sparso ricercheranno un’autonoma strada verso o contro l’Europa.
Probabilmente, a breve, non si parlerà più nemmeno di Brexit o di Gran Bretagna, ma di piccola Inghilterra, di Stati nazionali ex britannici che in ordine sparso ricercheranno un’autonoma strada verso o contro l’Europa.
Se l’impresa di demolizione del Regno Unito appartiene a questi leader e soprattutto a Boris Johnson che più di tutti ha contribuito a intossicare l’opinione pubblica di pregiudizi antieuropei, il consenso popolare alla Brexit nasce però da lontano e tiene insieme i sentimenti nazional populisti che scruotono tutti i paesi europei con una peculiarità soprattutto inglese, più che britannica, ossia il retaggio di una grandezza coloniale e imperiale che si è rivoltato nel suo contrario, la frustrazione della perdita di prestigio, la paura di essere colonizzati. Fino a quando l’Inghilterra, pur nel rispetto delle autonomie culturali e regionali, ha potuto sentirsi perno e guida della Gran Bretagna, il rapporto con l’Europa ha funzionato, nonostante periodiche conflittualità. Poi si è compiuto una sorta di suicidio culturale e politico cui hanno contribuito gli strati popolari sedotti dal verbo populista ma anche una parte dell’establishment inglese. In questo senso, la Brexit è in realtà un’ England Exit, la risposta irrazionale di una ex potenza che voltando le spalle all’Europa celebra un‘orgogliosa sconfitta. E Boris Johnson ne è l’immagine più paradossale.
Membro di una classe dirigente formata per guidare il Regno Unito e il Commonwealth si è ridotto a tenere insieme le briciole di un piccolo paese chiamato England. Il Guardian, scorrendo i suoi errori, lo ha paragonato a Macbeth, il re che di delitto in delitto si è macchiato di troppo sangue per tornare indietro. Tradito da amici e colleghi, abbandonato da ministri e persino da suo fratello, è in un vicolo cieco e senza ritorno. E con lui un Paese amato e ammirato.