Non facile il primo impegno di Luigi Di Maio da ministro degli Esteri: il capo politico del Movimento 5 Stelle non ha avuto nemmeno il tempo di leggere a fondo il faldone con i dossier prioritari preparati per lui dai diplomatici che è dovuto volare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. A New York Di Maio si fermerà per tutta la settimana, imparerà cosa vuol dire trovarsi in un contesto dove si passa da un’assemblea plenaria sulla crisi libica a un incontro bilaterale con il ministro degli Esteri indiano (previsto in agenda), e dovrà dimostrare che nonostante le sue lacune in inglese è in grado di condurre discussioni veloci e proficue con le sue controparti. Un bel salto dalle riunioni con Casaleggio e Beppe Grillo per decidere il candidato civico per la regione Umbria. E tuttavia il suo ruolo politico lo perseguita (o lo salva): al punto stampa organizzato davanti al palazzo di vetro le domande sulla sua visita durano cinque minuti, poi uno dei cronisti, intuendo forse la poca dimestichezza con il nuovo ruolo, gli chiede dell’Umbria e dell’alleanza con il Partito democratico, una domanda che si porta via quasi tutto il resto della breve conferenza stampa improvvisata. Il bello del doppio ruolo.
Al ministero degli Esteri c’è molta curiosità per capire come Luigi Di Maio interpreterà il suo ruolo. La Farnesina è tanto sollevata dalla partenza di Enzo Moavero Milanesi, giudicato inadatto e poco interessato alla politica estera, quanto impaurita dall’arrivo di un ministro che di esteri non sa nulla. Non è un caso che Di Maio, ministro degli Esteri e di Rousseau, a venti giorni dal suo insediamento non abbia ancora concesso alcuna intervista in quanto capo della nostra diplomazia, ma soltanto da capo politico del Movimento. Un’ammissione di poca competenza da un lato, ma anche di buon senso dall’altro: meglio non farsi notare fin da subito accostando Pinochet al Venezuela, elogiando la millenaria democrazia francese o incontrando chi inneggia al colpo di Stato contro un Capo di Stato democraticamente eletto di un paese alleato. Con Di Maio, alla Farnesina, si parte dalle basi, probabilmente dal fatto che prima di presentarsi da ministro su suolo straniero le cancellerie di competenza vanno avvisate.
Errori di gioventù, che però trasmettono la sensazione di un nuovo ministro sotto tutela del corpo diplomatico. «Il ministro è disponibile all’ascolto, e sta studiando molto. Bisogna capire poi qual è il confine tra il suo bisogno di ricevere aiuto in una materia molto complessa e una sua eventuale incapacità di comprenderla. Abbiamo vinto un concorso per servire lo Stato, non per fare da balia, questo è chiaro», spiega un diplomatico di lungo corso, aggiungendo però, ottimista «Almeno adesso un ministro c’è». Tra l’altro, aggiungiamo anche noi, meglio Di Maio attorniato da balie che Di Maio padrone fino in fondo delle proprie dichiarazioni.
Alla Farnesina non vedono bene annunci vaghi su temi delicati, come quello fatto su accordi con altri paesi sui rimpatri, la diplomazia italiana è abituata a lavorare sotto traccia
Il filtro, tuttavia, va perfezionato: il 20 settembre, Di Maio, a margine di un evento ad Assisi, ha dato la linea del suo ministero sul dossier immigrazione con una dichiarazione piuttosto involuta: «Non dobbiamo farci prendere da facili entusiasmi perché quando si crea e si enfatizza troppo il concetto della redistribuzione potrebbe mettersi in moto un cosiddetto pull factor per cui i cosiddetti trafficanti di uomini convincono con più facilità tanti disperati a partire dalle coste nordafricane e a venire sulle nostre coste. È per questo che, come Farnesina, come ministero degli Esteri, nei prossimi giorni pubblicheremo delle novità sul meccanismo dei rimpatri».
In primo luogo, al ministero non vedono bene annunci vaghi su temi delicati. La diplomazia italiana è abituata a lavorare sotto traccia, se in queste ore alla Farnesina si sta lavorando ad accordi con altri paesi sui rimpatri, meglio dare l’annuncio a cose fatte. In ogni caso è una dichiarazione irrituale, visto che la posizione del governo Conte è che dei rimpatri dovrebbe occuparsi direttamente la Commissione europea, non i singoli Stati. In secondo luogo, Di Maio sostiene che un eventuale accordo sul meccanismo di redistribuzione sia positivo, ma non bisogna parlarne troppo, niente «facili entusiasmi». Altrimenti si genera ciò che lui definisce un «cosiddetto pull factor», cioè un incentivo alle partenze, peraltro sempre smentito da inchieste giudiziarie che hanno provato, senza riuscirvi, a trovare correlazione tra l’impegno delle navi Ong e l’aumento degli sbarchi. È questa invece la posizione ufficiale del ministero degli Esteri? Se così fosse, la Farnesina dovrebbe avere chiesto alla collega Luciana Lamorgese, che da ministro dell’Interno ha negoziato nella giornata di oggi a Malta le basi per un accordo di redistribuzione volontario che superi il trattato di Dublino, di nascondere un risultato al contrario inseguito e rivendicato dal nuovo governo. D’altronde i trafficanti ascoltano.