Il bastone. Non può che essere una sibillina presa per il c**o, lo sbrego di Fontana sul deretano illustre, uno sfregio, lo statuario giù dal precipizio. Premessa. Gli intellettuali che discettano di calcio sono patetici. Dall’alto del loro brioso snobismo, ammantano con celestiali aggettivi quella roba lì: 20 in tacchetti che pedalano intorno alla palla, fallicamente da sbattere entro un rettangolo adornato di rete, su cui sostano due sacrosanti spilungoni coi guanti.
In ogni caso, il “gesto” atletico, se sublime, è indicibile, ogni tentativo di descriverlo oltre il suolo della cronaca indegno, al sapiente che si finge pop – populista da piazzate cerebrali – non resta che sputare in faccia. Questa, però, è una sonora sputtanata. Esempi per capirci. “Più grande di Ronaldo, chiaramente, Romario”; “Tardelli accoppiava qualità e quantità. Perché era un giocatore anche quantitativo”; “Van Basten, per me, è uno dei due, dei tre più grandi di ogni tempo”; “Eusebio, per esempio, ha sempre giocato sul breve: palla a terra e sul breve”. Neanche l’avventore di un bar all’ennesimo bicchiere di rosso, zombie prima ancora di nascere, s’ardirebbe in simili ovvietà.
Mutando sport, non muta la rapace stupidità dell’interlocutore. “All’infuori dell’NBA, come si fa a giocare a basket? Come si può sopportare il basket? Uno come Michael Jordan, dove lo trovi?”; “Edberg, per me, è il tennis, come Sugar Leonard è la boxe”; “la Nuova Zelanda è il Brasile del rugby… la palla non la vedi”. Quando si sfiora l’atletica penetriamo nel magma del grottesco, nuotata nella solita minestra riproposta tre giorni dopo: “Owens ma nelle Olimpiadi del ’36. Quando vide che aveva vinto un nero, Hitler sbiancò!”. C’è da sbiancare, piuttosto, quando si legge che a mitragliare tale carnevalata di cretinate è Carmelo Bene, il sommo, l’artista inimmaginabile, l’istrione caustico, il genio desolato, l’assoluto anarchico, quello di Nostra Signora dei Turchi, quello che faceva Pinocchio come Amleto e Amleto come nessuno, l’inevitabile, quello che ha imposto un modo nuovo di pensare il teatro, sfasciandolo.
“Più grande di Ronaldo, chiaramente, Romario”
Ora: oltre a chi sproloquia di calcio da celestiali cime d’intelletto angelico, mi fa l’effetto di uno che ti strappa le unghie con le pinze chi scava tra le carte dei giganti pubblicando non tanto le cose “minori” – utili a illuminare le maggiori – ma i testi inutili. Questo Discorso su due piedi, fatto con i piedi, tra Carmelo Bene ed Enrico Ghezzi – in evidente stato di trance pallonara: “Quando il Brasile perde, piango. Secondo me dovrebbe sempre vincere” – oltre che inutile è la replica del già noto: la discussione fu edita nel 1998 da Bompiani, con la stessa copertina, pure. Che due parlino di calcio per i fatti loro, impallinando una goleada di scemenze (“Perché Romario è il più grande? Perché appunto è capace di una cosa, del quid che poi più conta: l’immediato. È capace dell’immediato”) affari loro, lo facciamo tutti: ma perché far sorbire a noi, lettori innocenti, questo sorbetto di vanità?
Il libro sarà abile a rinforzare il curriculum intellettuale di Ghezzi, ma è un vilipendio alla memoria di Bene. Per ricongiungerci con il verbo del maestro, vi consiglio di ascoltare, per tutto il fine settimana, le memorabili letture di Carmelo, Quattro modi di morire in versi, in cui il sommo legge, nei metallici Settanta, per la Rai, alcune poesie di Majakovskij, Blok, Esenin, Pasternak (Le onde, che meraviglia, Le onde…), con le zampate critiche di Angelo Maria Ripellino. Certo, duole rassegnarsi all’ignominia: se vuoi comprare il volume delle Opere di Carmelo Bene, quelle vere, edite da Bompiani nel 2008, ti scorni, il volume è “Attualmente non disponibile”. Di Bene restano le frattaglie, le viete idiozie, da vietare.
Carmelo Bene, Enrico Ghezzi, Discorso su due piedi (il calcio), La Nave di Teseo 2019, pp. 156, euro 11,00
La carota. Non appena, per gioco, in favore di centenario, ho scritto che “Brera, nel suo, è meglio di Gadda”, ho scatenato le ire – benevole, credo – di Andrea Cortellessa, critico tutto d’un pezzo, marmoreo gaddiano, affetto dal morbo di Maradagál. “Ma Brera meglio di Gadda, questo no, non dovevi proprio dirlo! È il più vieto dei luoghi comuni populisti”, mi scrive. Gli replico che non occorre prendere troppo sul serio un pensiero che surfa sul brio, con la porta tagliafuoco al posto giusto (nel suo significa che nel suo ambito, la cronaca sportiva, Brera è meglio di Gadda, che fa altro).
Per altro, l’accostamento l’ha fatto Umberto Eco, ora in sentore di santità, senatore del qualunquismo (nel 1963, a proposito dello stile spericolato di Brera ne scrisse come di “gaddismo spiegato al popolo”): Brera se ne dissociò, con movenze da pavone (“Infine viene Eco, e scopre l’acqua calda: non sapendo a quale prototipo addebitare un linguaggio per lui nuovo, cerca nell’elenco bibliografico: vedi mo’ qua Carletto Emilio de’ Gadda di Milano… Un bel niente! Carletto Emilio è uscito col Pasticciaccio quando el Gioânn scriveva cronacazze muscolari da venti anni. El por Gioânn non ha mai preteso di far letteratura. Se ha dovuto inventarsi un linguaggio, non già una lingua – scherzèm minga –, lo ha fatto perché non esisteva”).
Tra l’altro, nel libroide di cui scrivo sopra, Bene si dilunga a dire che pure Antonio Pizzuto è meglio di Gadda, “ci sono tante pagine dove io lo preferisco a Gadda” e che “tutti e due, comunque, senza la Scapigliatura milanese, senza Dossi non sarebbero esistiti”. Insomma, Cortellessa, votato al culto di San Ingravallo, deve rassegnarsi a questa schiera di eretici bestemmiatori di Gadda.
Omar Sìvori “danza i suoi dribbling con atteggiamenti che ricordano le figure di certi pattinatori classici”
In ogni caso, ecco, il calcio lasciamolo a chi lo sa dire, a chi ne ha forgiato il vocabolario, all’Omero padano, il Dante della pedata, l’estroso Ariosto delle sgambate grammaticali lungo la fascia. Brera. Lui. Maestria incomparabile, cultore dell’eros per il neologismo, Brera, autore di uno dei pezzi più belli della storia del giornalismo italiano – così mi assicura quel Cerbero dandy di Luigi Mascheroni: trattasi del fatidico coccodrillo del 1979 a celebrare la dipartita di Giuseppe Meazza (chiusa micidiale: “Avendo io a lungo delirato per lui, mi dico oggi che gli eroi quelli veri, andrebbero per tempo rapiti in cielo, così come usava una volta, che non debbano restare fra noi a morire accorati e offesi della loro ingiustissima sorte”) – era geniale a fare ciò che faceva. Discettare di calcio (finale Italia-Germania di Spagna ’82: “Il gol di Tardelli è quanto di più elegante sia stato visto da queste parti, voglio dire in una finale di campionato del mondo che toglie fantasia anche ai poeti e santità di propositi ai santi… Sul 2-0 ho acchiappato il mio cuore tarlato e bislacco e l’ho rimesso dove suole pompare secondo necessità logica”).
Per il centenario non c’è pubblicazione di merito, occorre sfogliare la bella antologia allestita da Massimo Raffaeli per la Bur (2007; quasi introvabile), non gli dedicano neppure l’ombra di un Meridiano, eppure ne fanno sfoggio, nel museo delle cere, Scalfari e Citati, perfino il caro estinto Camilleri ha i suoi tomi cimiteriali. Memorabile il pezzo su Omar Sìvori (“Danza i suoi dribbling con atteggiamenti che ricordano le figure di certi pattinatori classici”), quello su Pelé e Leopardi, era il 1962. A differenza dell’intellettuale che fa smaniosa, odiosa filosofia sul calcio, il cronista sportivo – così si diceva Brera – che bordeggia la letteratura e slingua la lirica è formidabile (sentite qui: “Sapete che è Giacomino: ha il Parnaso fra le scapole, e i coglioni dicono che è gobbo”). Non gaddeggiava né cazzeggiava, Brera: probabilmente, sta ancora antipatico.
Gianni Brera, Il più bel gioco del mondo. Scritti di calcio (1949-1982), a cura di Massimo Raffaeli, Bur, 2007