Le sorprese in campagna elettorale arrivano anche all’ultimo secondo. In America la chiamano “October surprise”: a un mese dal voto arriva sempre l’evento imponderabile che scompagina il quadro politico. Due esempi? La vittoria di Reagan nel 1980 e di Trump nel 2016. In Israele invece, la “sorpresa di Ottobre” ha un nome e un cognome ben precisi: Benjamin Netanyahu. A pochi giorni dalle elezioni politiche, le seconde nel giro di cinque mesi, il premier israeliano si è lanciato in una promessa a dir poco roboante: «Se vinco, Israele annetterà la Valle del Giordano e il nord del Mar Morto». Una zona occupata da molti coloni israeliani ma formalmente controllata dall’Autorità Nazionale Palestinese. E tanti saluti al processo di pace.
Una simile promessa serve innanzitutto a riavvicinare al partito del premier, il Likud, gli elettori indecisi o provenienti dai settori della Destra religiosa e nazionalista
Provocazione da campagna elettorale o promessa concreta? «Un po’ tutte e due, la mossa di Bibi infatti ha una doppia valenza, sia politica interna che internazionale» spiega il dottor Giuseppe Dentice, ricercatore dell’ISPI ed esperto di Israele e Medio Oriente. «Non c’è dubbio: una simile promessa serve innanzitutto a riavvicinare al partito del premier, il Likud, gli elettori indecisi o provenienti dai settori della Destra religiosa e nazionalista, rappresentata nel quadro politico dalla Casa Ebraica di Rafi Peretz e da Israele, casa nostra di Avigdor Lieberman», precisa Dentice. Una mossa quindi rivolta soprattutto all’elettorato interno, che tra pochi giorni potrebbe riportare il Parlamento indietro di 5 mesi, frammentato e senza una chiara maggioranza. Polarizzare l’elettorato su un tema tanto identitario potrebbe così permettere al Likud di distanziarsi dal suo rivale, il partito Blu e Bianco di Benny Gantz, al momento appaiato nei sondaggi. «Blu e Bianco non ha una vera posizione riguardo alla questione palestinese nonostante abbia posizioni molto più interventiste rispetto a Netanyahu», mentre gli altri partiti di sinistra, incluso il Labour ormai prossimo all’irrilevanza politica, «hanno deboli posizioni filoarabe che però non hanno molto seguito all’interno della Knesset, il Parlamento israeliano».
La dichiarazione bellicosa di Netanyahu è anche un segnale al mondo. E a Washington soprattutto
La dichiarazione bellicosa di Netanyahu è però anche un segnale al mondo. E a Washington soprattutto. Stavolta la “sindrome d’accerchiamento” di Israele conta fino a un certo punto, visto che «il vero incubo di Netanyahu è un possibile riavvicinamento tra USA e Iran, come successo al G7 di Biarritz». Il premier israeliano sa di contare sul sostegno del presidente americano Trump ma sa anche che tra un anno e mezzo le elezioni presidenziali potrebbero cambiare lo scenario politico. Il classico momento ora o mai più, che «che potrebbe mettere a forte prova l’alleanza tra Americani e Israeliani. Un’eventuale fuga in avanti di Israele verrebbe sicuramente appoggiata dagli Stati Uniti, anche se con riluttanza». Una magra figura, come accaduto per Gerusalemme capitale di Israele, dove Washington è stata una delle poche a spostare la propria ambasciata, che metterebbe a serio rischio il processo di pace. «Se Israele mettesse in pratica il suo proposito di annessione, il progetto di confederazione verrebbe definitivamente eliminato».
E i Paesi arabi come la prenderebbero? «Il mondo arabo si pronuncerebbe in maniera compatta contro l’eventuale annessione. Anche se Giordania, Egitto e Arabia Saudita si esponessero contro il progetto di Israele, credo che difficilmente mandrebebero loro uomini a sostenere la causa palestinese. Prevarrebbe la realpolitik». L’Iran invece? «Cercherebbe di cavalcare l’ondata di malcontento popolare in funzione anti-israeliana. E in più alimenterebbe la guerriglia con Hezbollah e Hamas, i gruppi armati più vicini al credo politico di Teheran». Non resta che attendere quindi. Le elezioni del 17 settembre si prospettano come le più incerte degli ultimi 15 anni: il risultato potrebbe anche sorprendere. Una nuova fase potrebbe aprirsi dal giorno dopo. «Solo se uscirà una maggioranza chiara dalle elezioni, gli Americani esporranno il loro piano di pace. Altirmenti non si esporranno». L’ultimo voto nelle urne sarà decisivo.