I salvati. In macchina, verso Santarcangelo, la sera lamina fendenti: la città di Cagnacci, il pittore delle Cleopatre erotiche e delle Maddalene sfrontatamente carnali, gli dico, bloccandolo. Mi stava spiegando Emanuele Severino, “probabilmente il più bravo, non solo in Europa, nel maneggiare il linguaggio della filosofia”, spiegandomi le ragioni per cui è in totale disaccordo con le sue tesi. Ammetto il mio disastro intellettuale, non lo seguo. Poi mi parla di Gianni Vattimo, “comunque un filosofo che ha coniato il nuovo: di ‘pensiero debole’ ho letto anche sulle parole crociate”, e di Massimo Cacciari, con cui ha condiviso gli anni d’oro, a Venezia. Colpa mia. Cerco di spremere più che posso da Franco Rella, uno dei rari pensatori, oggi. Sono cresciuto sulla sua traduzione delle Elegie duinesi (per la Bur) e dei Sonetti a Orfeo (per Feltrinelli) di Rainer Maria Rilke. Ho tormentato di sottolineature quei tomi. Questo concetto, per dire: “Non si tratta più di opporre l’essere al non essere, come una sorta di frontiera, precipitando il non essere, come ha fatto la filosofia lungo tutta la storia, in un puro niente. Si tratta invece di porsi nel punto di oscillazione tra essere e non essere, là dove, come ha scritto Hölderlin, ‘tutto il possibile diventa reale’”. Nella nota biografica Rella specifica di aver lasciato la cattedra prima del pensionamento, “nel momento in cui lì, come in tutta l’accademia, si andava restringendo lo spazio critico”. In privato, sancisce la nota in modo più schietto: “Un giorno, mentre andavo a lezione, mi sono domandato: con quale professore avrei voglia di prendere il caffè, oggi? La risposta mi ha costretto a mollare, mi sono ritirato a scrivere”. Il dilemma sul senso della filosofia, oggi, scava il suo ultimo libro, Immagini e testimonianze dell’esilio (che riprende il filo di quell’altro, Dell’esilio, pubblicato da Feltrinelli nel 2004). “La filosofia deve ritornare al luogo da dove è partita. Questo è il luogo dell’Unheimliche freudiano, che non è il «perturbante» con cui questo termine è stato tradotto in italiano. È lo «spaesamento», o meglio ancora, l’«espatrio», la «desituazione» dalle abituali regole di condotta intellettuale e cognitiva… Riappaesando invece la filosofia, all’interno di saperi dati, spegnendo ogni ansia di viaggio in questo territorio intermedio, cessato questo esilio e questo espatrio in atopia, si rischia di perdere il senso stesso della filosofia”.
Quegli uomini flagellati dalle acque e dal freddo non mettono in pericolo lo stato. Non è in gioco la sicurezza nazionale, ma il prestigio dell’uomo forte, di fronte al quale tutti questi uomini accatastati sulla tolda di un’imbarcazione sono restituiti alla condizione della nuda vita. Sono tutti sacrificabili
Da estatico più che da esteta, da idiota del pensiero e da orante letterario, adoro il modo in cui Rella penetra negli scrittori che costituiscono il suo ‘canone’ privato. “Leggo almeno una volta all’anno La morte di Ivan Il’ic, ho fatto autentiche esperienze esistenziali passando mesi a tradurre le lettere di Flaubert e leggendo i Cahiers di Valéry”. Mi parla di Dostoevskij e di Georges Simenon (“l’ho letto tutto, è abbacinante, egli rappresenta davvero la ‘nuda vita’ di cui dice Giorgio Agamben”), nell’ultimo libro scrive di Cuore di tenebra di Conrad (“Marlow sa, dunque, che la verità è ombra, oscurità, che può, anzi deve, essere rivelata come tale, come alone e ombra appunto, che non può essere lacerata, disvelata, chiarita”) e ritorna a Franz Kafka come emblema dello “Scrittore estremo. Uno scrittore che si è spinto nella scrittura a un punto di nudità che è stato raggiunto anche da Baudelaire e da Proust e da Bataille e da Beckett. Vi è giunto radicalizzando qualcosa che è implicito nell’atto stesso dello scrivere, quando scrivere è cercare un rapporto con il mondo, e non semplicemente comunicare qualcosa”. “Atto strano quello dello scrivere. Atto incomprensibile e assurdo”, continua Rella. Atto che penetra la contraddizione del male (“La scrittura ha dunque questa duplice irriducibile verità. Deve testimoniare l’orrore, e in questa testimonianza fa apparire o, meglio ancora, fa essere l’orrore”), che pretende una devozione crudele. In un libro intimo, anomalo, Scrivere. Autoritratto con figure (Jaca Book, 2018), Rella indaga l’egoismo agghiacciante dell’artista, che all’opera sacrifica tutto, compreso l’affetto (per sé, per altri). “È l’egoismo del poeta di fronte alla sua opera che è per lui mondo, tutto il mondo, più del mondo”, scrive, dicendo di Proust che si ritira per adempiere la sua ‘Ricerca’, annullando le amicizie, di Rilke “che scriveva lunghe lettere per tenere lontane le sue amanti”, di James Joyce “che mai si è curato di sapere chi fosse colui che lo sosteneva economicamente attraverso Ezra Pound, perché la sua opera veniva prima di tutto e tutto gli era, o meglio le era dovuto”, di Boris Pasternak che a un’amica che lo avvisa della malattia mortale della cugina Ol’ga, così cara e amata durante la giovinezza, risponde sbrigativamente, è dentro il gorgo di ‘Zivago’, “Ti abbraccio, sono in salute, ho addirittura paura a dire quanto sono felice… l’unica cosa che possiamo fare è di riversare tutto il nostro amore nella creazione di qualcosa di vivo, in un lavoro utile e creativo”.
Nel prossimo libro, Territori dell’umano – pubblico a metà ottobre, sempre per Jaca Book – Rella sfiora la dimensione più chiaramente ‘politica’, alludendo a Matteo Salvini (che ormai, nella lapidazione dei giorni sembra il fossile di un’era presunta): “Il politico in Italia – ma anche nell’America di Donald Trump –, che non solo rifiuta, ma punisce i soccorritori, non ha certo le dimensioni di un personaggio tragico. Non è Creonte, che agiva temendo che trasgredire le leggi stabilite mettesse in pericolo la polis… Ma lo stato e la comunità non sono oggi messi in pericolo da poche decine di migranti salvati dalla morte e imbarcati su una nave a cui si impedisce di attraccare. Quegli uomini flagellati dalle acque e dal freddo non mettono in pericolo lo stato. Non è in gioco la sicurezza nazionale, ma il prestigio dell’uomo forte, di fronte al quale tutti questi uomini accatastati sulla tolda di un’imbarcazione sono restituiti alla condizione della nuda vita. Sono tutti sacrificabili”. Soprattutto, il filosofo si confronta con l’inumano. “Annientamento, estrema e totale umiliazione” è quello che capita a chi è espropriato di diritti, espulso dal convegno del vivere. Ma lì è anche il Nord del sacro. “La via della verità è impervia, impossibile, inumana”. Anche lo scrittore, sacerdote dei bisbigli, di una parziale ispirazione, deve spogliarsi di sé per farsi attraversare dalla scrittura, che non lo celebra, lo sarchia.
Franco Rella, Immagini e testimonianze dell’esilio, Jaca Book 2019, pp. 220, euro 20,00
Alain è stato pensatore atipico e asistematico, socratico, che dall’avvio dell’ovvio, da un frammento di cronaca, dal bagliore di un istante, trae una morale frugale, una metafisica contadina.
I sommersi. Sergio Solmi è un maestro discreto, disgraziatamente distante, che devasta con aforismi nitidi quanto un cielo azzurro, assunto all’alba. Devo a Luca Orlandini questo brano, tratto da L’usignolo, già ipotesi di una disciplina. “Poeti che invece di comporre versi/ avrebbero dovuto camminando senza posa,/ addentrarsi nel bosco…/ sottomettersi all’influsso di forme/ e suoni ed elementi fugaci”. Beh, Sergio Solmi si diede da fare per diffondere in Italia l’opera di Émile-Auguste Chartier, noto come ‘Alain’, a suo dire “una delle quattro grandi voci della cultura francese ancora ‘egemonica’ nel periodo fra le due guerre”, insieme a Gide, Valéry e Claudel. Se già Solmi è noto a quattro gatti, figuriamoci Alain, di cui il grande Sergio, raffinatissimo cultore della letteratura di Francia – si vedano i due tomi Adelphi che ne raccolgono i Saggi di letteratura francese, a cura di Giovanni Pacchiano – ha tradotto per Einaudi una selezione dei leggendari propos (li trovate tutti nella ‘Pléiade’ Gallimard) come Cento e un ragionamenti (prima edizione 1960, poi 1975, infine l’oblio). Alain è stato pensatore atipico e asistematico, socratico, che dall’avvio dell’ovvio, da un frammento di cronaca, dal bagliore di un istante, trae una morale frugale, una metafisica contadina. Alain può parlare del “buco del formicaleone” come del vento che sgretola l’equilibrio capelluto dei campi, del matrimonio (“è un rimedio, e non si ama il rimedio, soprattutto quando si ama un poco la malattia”) e dell’amore (“l’amante che uccide la donna adorata si uccide con lo stesso colpo: ama il suo prossimo come se stesso”), della “filosofia di Darwin” (“Un’intera foresta nasce sotto i vostri occhi, col suo intrico di piante in lotta, con la sua prodigalità di semenza”) e dei riti funebri (in cui appare quella frase che fungeva da slogan per identificare l’opera di pensiero di Alain: “La vita è un lavoro che bisogna fare in piedi”). Nei Trenta Alain fu un mito: insegnante di liceo, si ritirò nella sua casa a Le Vésinet, scrivendo. Si sentiva affratellato a Montaigne, sviscerò i romanzi di Balzac e di Stendhal, fu maestro di Simone Weil, Raymond Aron e Julien Gracq, tra i tanti. La Seconda guerra lo sorprese vecchio – settantenne –, depresso – i nazi gli uccisero l’allievo devoto Jean Prévost – e tiepido. Il suo pacifismo un po’ reazionario lo screditò; non gli si potevano chiedere, d’altronde, particolari moti di coraggio: non si ribellò alla Francia occupata, collaborò a singhiozzo sulla ‘NRF’ diretta da La Rochelle, accuse postume di insipido antisemitismo diedero un colpo alla sua autorevolezza. È sepolto al Père-Lachaise. In realtà, l’opera di Alain è salutare, è un invito alla bella scrittura, al pensiero rapido e totale, occasionato dalla vita. Da ristampare e rileggere, rispetto ai troppi tromboni odierni, ai tanti filosofi da taschino, da talk.
Alain, Cento e un ragionamenti, a cura di Sergio Solmi, Einaudi 1960; 1975