Saluti romaniAttenzione: non c’è più Salvini al governo, ma l’onda nera è più viva che mai

Da piazza Montecitorio ieri si sono alzati i cori fascisti e i saluti romani. Ma è solo l’ultimo di una lunga serie di episodi. Perché il fascismo non ce lo siamo mai lasciati davvero alle spalle. E la colpa è anche della sinistra

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La piazza di Montecitorio, ieri, ha riportato alla luce le fronde più estremiste degli oppositori del governo. Mentre Giuseppe Conte si spendeva nel discorso per chiedere la fiducia per il suo nuovo governo, in piazza si radunavano gli oppositori dell’alleanza fra Pd e Movimento 5 Stelle, con i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e la Lega di Matteo Salvini in testa. Tra la folla, anche gli esponenti di Forza Nuova e CasaPound: per l’occasione, non sono mancati i saluti romani e i “duce!” urlati a squarciagola. Uno spettacolo che marca ancora una volta il netto spostamento a destra di chi pure a destra ci sta già. Dal “fuori dall’Europa” alle svastiche, il passo è fin troppo breve: i discorsi si mescolano e nessuno nemmeno si prende più nemmeno la briga di dissociarsi, a partire dagli stessi Salvini e Meloni.

A poco serve ricordare il cortocircuito della difesa dell’esercizio del “diritto democratico di voto”, quando al contempo si grida il nome di chi della democrazia costituiva l’antitesi. Viviamo in un paese “a metà” dove il reato di apologia di fascismo, paradossalmente, non si applica a chi il fascismo lo difende, venerando Mussolini come un dio. La normalizzazione in atto non lascia scampo – prova ne sia il fatto che fino all’altro ieri ne avevamo un simpatizzante tra i membri chiave del governo.

Forte si è levata l’onda di condanna sui social, finalmente qualcuno si è ricordato di additare quegli estremisti che non dovrebbero avere diritto di esistere. Non è però che l’ultimo esempio di una lunga serie, l’ultimo dei quali è stato il blitz contro la sede del Pd nel quartiere Vallette a Torino, appena due giorni fa. Se tutti ricordano la follia omicida di Luca Traini a Macerata, non serve spingersi poi tanto indietro nel tempo. Malgrado sulla stampa si trovino solo i casi eclatanti, episodi di questo tipo sono praticamente all’ordine del giorno.

«Spesso del fascismo viene riconosciuto l’aspetto folkloristico, con le braccia tese, ma la verità è che quelle persone e quei partiti non sono mai andati via da questo Paese», spiega a Linkiesta Daniele Napolitano, fotografo e videomaker, autore del documentario Gli occhi di Renato – Io non dimentico, che racconta la storia del giovane Renato Biagetti, ucciso nella notte tra il 26 e 27 agosto 2006 dai fascisti che lo aspettavano all’uscita da un concerto reggae a Focene, vicino a Roma. Otto coltellate con lame da 23 centimetri lo aspettavano, un orrore tanto violento quanto folle che, a partire da quel momento, avrebbe segnato le vite di tutti coloro che gli stavano vicino.

Dalle commemorazioni di Predappio alle caserme con i quadri di Mussolini, ancora nel 2019 spesso basta indossare la maglietta sbagliata per finire vittime di un pestaggio

«Quando mi telefonarono io presi a correre, chiedevo se fosse ancora vivo», racconta Stefania Zuccari, madre di Renato. «Quando arrivai in ospedale e i medici uscirono chiedendo chi fossero i parenti, caddi in pezzi, perché già sapevo cosa venivano a comunicarmi. Non è possibile, non è possibile, continuavo a ripetermi, è un dolore troppo grande». Oggi, Stefania Zuccari coordina il comitato Madri per Roma Città Aperta, organizzazione che si occupa di tenere viva la memoria di Renato e di organizzare attività che ruotano attorno all’antifascismo. È riuscita a tramutare il dolore in amore, come ripete spesso, e insieme ad altre donne lotta per quel mondo che suo figlio avrebbe voluto, «senza guerre, senza frontiere, un mondo solidale, dove tutti avrebbero diritto ad un reddito e ad una vita dignitosa».

Nel documentario, la storia di Renato si accompagna anche a quelle di altre vittime della furia fascista, da Valerio Verbano a Dax. Non mancano nemmeno i riferimenti alle violenze del G8 di Genova, quella che è stata riconosciuta come «la più grande violazione dei diritti umani dal dopoguerra in poi». 33 minuti per raccontare che, dagli anni ’80 ad oggi, nulla sembra essere cambiato, la violenza è rimasta la stessa, il desiderio spasmodico di soggiogare, di perpetrare violazioni della dignità umana pure. Le braccia tese di ieri pomeriggio, il sostegno a Salvini, Salvini stesso non sono che la punta dell’iceberg: la vera natura del problema sta nelle forze democratiche che sempre hanno concesso a queste voci di esistere e senza mai aver affrontato il problema. «Non saremo più nel ’45, non ci sarà più la guerra, non ci sarà più Mussolini, ma questo background politico e sociale il nostro paese se lo porta dietro da sempre», spiega Napolitano. Perché dalle commemorazioni di Predappio alle caserme con i quadri di Mussolini, ancora nel 2019 spesso basta indossare la maglietta sbagliata per finire vittime di un pestaggio. «Io a Roma abito a san Giovanni e agli amici che vengono a trovarmi ho vivamente consigliato di non mettersi addosso simboli che rivelino la loro fede politica. A 500 metri da casa ho la sede di Forza Nuova».

Il problema è sistemico e sistematico. E la responsabilità è anche di una certa sinistra, che da tempo «ha smesso di essere sinistra, e pure di centro-sinistra», dice Napolitano, legittimando di fatto lo stato delle cose. La stessa Zuccari racconta come, poco dopo la morte del figlio, l’allora sindaco Veltroni le disse che poteva scegliere se intitolare una via o un parco a Renato. Lei rispose che invece che intitolargli dei giardini, avrebbe dovuto chiudere CasaPound, così quello che era successo a Renato non sarebbe più accaduto. La risposta fu “Questo non è possibile. Devo lasciare qualche spazio anche a loro”.

«Se i decreti sicurezza di Salvini sono abominevoli, la legge Minniti-Orlando, che apriva alla trattativa con i libici, non è stata da meno. Al confronto, Berlusconi che trattava con Gheddafi era uno statista illuminato»


Daniele Napolitano

Oggi, il tema delle migrazioni è diventato l’esempio più lampante di questo sdoganamento. «Se i decreti sicurezza di Salvini sono abominevoli, la legge Minniti-Orlando, che apriva alla trattativa con i libici, non è stata da meno. Al confronto, Berlusconi che trattava con Gheddafi era uno statista illuminato», osserva Napolitano. Dall’indignazione per gli insulti a Carola Rackete ai centri di identificazione ed espulsione, dove «non si è fatta mezza campagna per chiuderli, ma invece sono state fatte campagne per dire che serviva più presenza umanitaria all’interno», la devianza sembra ormai diventata la normalità, e i problemi restano irrisolti alla radice. Anche sullo sgombero di CasaPound l’azione è stata controproducente: «il problema non era l’occupazione dell’edificio ma il fatto che quelli erano fascisti, peccato che nessuno l’ha detto», dice Napolitano. E anche Zingaretti, «che è considerato quello più a sinistra del Pd, nella sanità in Lazio, storicamente molto legata al mondo cattolico, ha fatto politiche con quelli che andavano a fare le manifestazioni pro life».

Lo spostamento della narrazione nel discorso pubblico, in breve, sarà difficile da risanare. E anche il nuovo governo dà pochi segnali di speranza in questo senso. «Io sono dell’idea che poco è cambiato, che non ci sia Salvini è positivo, ma non credo che di discontinuità ce ne sia davvero», ammette Napolitano. Intanto, ieri agli esponenti di CasaPound e Forza Nuova sono stati cancellati decine di profili Facebook e Instagram. L’iniziativa ha ricevuto il plauso degli esponenti Pd. Ma se ci si deve affidare a Menlo Park per tutelare la democrazia, difficilmente si otterranno veri risultati. «Un paese fascista lo si diventa inconsapevolmente, con la televisione che nega certi programmi, con il bavaglio che viene messo alla stampa». Il processo è già in atto – peccato che ancora i giallorossi non abbiano le idee chiare su cosa eliminare dalle politiche del governo precedente.

Intanto, le iniziative culturali e le attività degli attivisti rimangono rinchiusi nei centri e nei locali alternativi. E allora ci si potrà pure chiamare antifascisti, ma finché la realtà la si guarda dall’alto, dove coloro che esprimono il proprio malessere sono “gli ignoranti del quartiere popolare”, le piazze finiranno per essere sempre presidiate dai militanti della fazione sbagliata. «Salvini produce odio ed è sempre pronto ad individuare un nemico, ma a me fa più terrore la massa, la gente che non pensa e che non elabora», dice Zuccari. «Noi come donne lo combattiamo andando in tutte le piazze, urlando le nostre idee. Noi ricordiamo i nostri morti, combattendo le idee razziste e sessiste in tutte le maniere». La speranza la trovano nel sorriso di chi, come loro, non smette di lottare. La loro voce si unisce a quella di altre donne, dalle donne curde alle madri di Plaza de Mayo, con cui sono scese in piazza. Il prossimo progetto è l’apertura di una scuola di danza terapeutica ad Aida Camp, storico campo rifugiati in Palestina.

Un esempio bello e valido, come tanti ce ne sono ancora in questo Paese. E che però non cambia la realtà: di antifascismo, al giorno d’oggi, si parla troppo senza praticarlo abbastanza. I presidi, i volantini e i tweet incazzati non bastano più. Da che mondo è mondo, per cambiare lo status quo la testa bisogna alzarla. «Bisogna guardare la storia, laddove c’era un potere e un tipo di idea, non ci si è liberati in altro modo se non con una presa di posizione netta, ribellandosi», chiude Napolitano. «Metterci sullo stesso piano è pericoloso, perché non giochiamo allo stesso gioco. Ma oggi gli antifascisti hanno paura dei fascisti. Mentre io vorrei che, in modi diversi, avessero paura anche loro».

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