“Art pour l’art” scrisse Théophile Gautier nella prefazione al suo romanzo Mademoiselle de Maupin nel 1836. Espressione del filosofo Victor Cousin, ma che con lui divenne parola d’ordine di tutta una generazione di letterati e artisti rivendicanti l’indipendenza dell’arte da qualsiasi interpretazione di carattere morale o ideologica. Son passati quasi duecento anni e pare che mai come ora abbiamo bisogno di nuovi Gautier, di nuovi vati che ricordino al mondo intero e ai critici galoppanti quanto la morale e l’ideologia dovrebbero stare distanti dall’arte per non deturparne il gusto, il valore.
Once Upon a Time in Hollywood è un film, non un precetto di condotta morale
Basta leggere le ultime critiche — pubblicate su grandi testate, non siti web di qualche circolo di filmografia marxista — mosse all’ultimo film di Tarantino, Once Upon a Time in Hollywood (nelle sale in Italia dal 18 settembre) per vedere la spocchia moralistica della critica di oggi. Un film non politico ma che è diventato politico nel suo non corrispondere (se non addirittura ignorare) le richieste odierne ideologiche di diversity, identity politics, metoo, femminismo. “Ridicolmente bianco”, “una celebrazione del maschio bianco” tuona Richard Brody sul New Yorker (abbandonandosi più a una recensione su Tarantino che sul film in se stesso, praticamente ignorato), “sadico, violento, razzista e con fantasie misogine che egli insiste siano solo finzione, non vita reale” scrive sul Times Larushka Ivan-zadeh (lasciando interdetti, forse la giornalista ha alcune lacune sui concetti di realtà e finzione),“moralmente repellente” nell’uso della violenza con “vendette sempre più puerili e misogine” ancora Caspar Salmon sul Guardian. Critiche simili, che paiono dimenticare l’aspetto principale: Once Upon a Time in Hollywood è un film, non un precetto di condotta morale.
“I just make movies” rispose lo stesso Tarantino durante un’intervista su Django Unchained, altro film controverso e ultracitazionista, al giornalista di Channel 4 Krishnan Guru-Murthy che sottintendeva, mellifluamente, una correlazione fra la violenza della pellicola — e di tutta la sua filmografia — e quella reale. Tarantino rifiutò di discutere anche solo l’ipotesi, aggiungendo, perentorio: “It’s a movie, it’s a fantasy. It’s not real life” (finendo, spinto dall’insistenza di Guru-Murthy, alla collera del famoso: “I’m shutting your butt down”). O pensiamo a Cannes 2018 quando in conferenza stampa alla domanda metoo della giornalista del New York Times sul perché la protagonista di Once Upon Time in Hollywood, Sharon Tate, fosse per lo più muta, risponde, visibilmente infastidito: “Semplicemente rifiuto le sue ipotesi’” chiudendola lì. E diventando il nuovo vate di una libertà dell’arte per l’arte senza precetti moralistici, quote rosa e razziali, misurazioni di violenza e correttezza politica e ideologica, che fanno tutto ormai così liberal, così Hollywood.
È una lettera aperta di quasi tre ore a quel mondo culturale che pensa che guardare e promuovere film virtuosi equivalga all’essere virtuosi, tralasciando l’unica cosa di cui dovrebbe preoccuparsi: l’arte
Lasciando più di un dubbio su come si possa basare l’importanza di un personaggio nel numero di battute dette, e nient’altro. Dopo aver visto il film, dove una Sharon Tate interpretata da Margaret Robbie troneggia, regina assoluta, l’affermazione sulla poca importanza dell’attrice nella pellicola (addirittura su Independent questa mancanza di battute è definito “fatto deplorevole”) pare ancor di più balzana, maldestra. Lo fa in silenzio, è vero, per lo più danzando, sorridendo, camminando ma tutto è men che una bambolina. Il suo silenzio è una forma di rispetto, come se ogni parola potesse rovinarne l’iconografia, il suo essere diva di un’epoca che non c’è più. E se non parla non è perché non ha nulla da dire, ma perché è perfetta così, nel suo sorriso che redime la realtà, quella di una morte atroce. Tarantino riesce a mitizzarla e lo fa teneramente come mai nei suoi film.
Sconcerto sulle critiche moralistiche e mosse al film partono anche da un altro paladino americano dell’ “art for art’s sake” odierno, lo scrittore Bret Easton Ellis, che regala una bella recensione sul suo podcast (dove finalmente si parla soprattutto del film e non della sua amoralità). Ellis, autore già della raccolta anti-liberal Hollywood White, si rammarica che ormai, di nuovo, si confondano i termini, che si sia così confusi da portare a pensare che il Bruce Lee caricatura (vedi la scena grottesca dove perde a botte con Brad Pitt) sia un atto di razzismo (così di nuovo Brody sul New Yorker). Quando invece è solo comicità, paradosso, scherzo… in una parola fiction. E poi come se Bruce Lee, il mito, avesse bisogno di apologie e avvocati difensori. Ellis è sicuro, ormai siamo portati a credere che “un’immagine di presunto razzismo sia un atto di razzismo”. Ma non lo è, non lo può essere.
Once Upon a Time in Hollywood è “a fuck you to liberal Hollywood” dice di nuovo Ellis, un corale rifiuto al pensiero liberal di ora, così moralmente e ideologicamente superiore, tanto da voler celebrare e premiare i film più giusti, e non i più belli. È una lettera aperta di quasi tre ore a quel mondo culturale che pensa che guardare e promuovere film virtuosi (come non dimenticarsi dei così celebrati Moonlight e Green Book) equivalga all’essere virtuosi, tralasciando l’unica cosa di cui dovrebbe preoccuparsi: l’arte.