Non c’è un altro posto del mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio. Nel calcio di una volta, forse, perché quando Albert Camus pronunciò queste parole, non poteva certo immaginarsi un futuro così grigio. Lo stadio è tutt’altra cosa, in questo momento. È tifo, passione, bellezza ed eternità, ma è anche razzismo, ignoranza, criminalità e diseducazione.
L’indagine “Last Banner” ha aperto un vaso di Pandora colpendo i vertici dei principali gruppi di tifoseria juventina, quello dei Drughi e quello di Tradizione, accusati di aver messo in piedi una struttura organizzata a vario titolo di associazione a delinquere, estorsione aggravata, autoriciclaggio e violenza privata. Le ritorsioni rivolte alla società torinese erano, ebbene sì, i cori razzisti, fonte di ammende da parte del giudice sportivo in media da 10 mila euro. E non solo.
Senza contare l’episodio degli ululati verso Kessie nella partita giocata domenica sera tra Hellas Verona e Milan, ennesima conferma della presenza di un virus: il calcio italiano è succube delle balbuzie legislative e, con le società sportive, testimone occasionale di un incattivimento dilagante.
Senza scomodare spunti di riflessione su un Di Canio “littorio” nel derby del 6 gennaio 2005, sul ben noto sfogo del giocatore ivoriano Marco André Zoro in Inter-Messina, i cori diretti a Sulley Muntari, o quelli “conquistati” da Moise Kean; per non parlare dell’Udinese con l’israeliano Ronny Rosenthal, al quale dedicarono scritte sui muri come “via gli ebrei”, o dei tifosi della Lazio che – senza troppo sorprese, visti i precedenti – esposero lo striscione “Auschwitz la vostra patria, i forni le vostre case” durante un derby. Il nervo scoperto continua a infliggere staffilate all’intero settore: dal 2000 al 2013 gli stadi italiani sono stati teatro da 630 episodi xenofobi, mentre, secondo l’Osservatorio sul Razzismo e Antirazzismo nel Calcio, solo nella prima metà della stagione 2017/2018 si è registrato un picco di 60 casi.
Il buuuu scimmiesco non è considerato più insulto ma per certi versi una sorta di timore reverenziale provocato dalla forza del giocatore. Un po’ come giustificare il bullismo per la paura dell’intelligenza altrui. Pura idiozia
Un numero preoccupante se si prende in considerazione il giro di spugna che a seguito di ogni exploit triviale cancella l’intenzionalità del fatto. «Lukaku lo fermi solo con le banane», ha commentato l’opinionista Luciano Passirani nel corso della trasmissione Top Calcio 24, a rafforzo di una tesi usata anche, con fatica grammaticale, nella folle lettera dei tifosi nerazzurri a margine della partita con il Cagliari indirizzata sempre al bomber belga: il buuuu scimmiesco non è considerato più insulto (letteralmente “quelli di Cagliari non sono cori razzisti”), ma per certi versi una sorta di timore reverenziale provocato dalla forza del giocatore. Un po’ come giustificare il bullismo per la paura dell’intelligenza altrui. Pura idiozia.
Nonché alimentata e normalizzata, spesso, da quelle che dovrebbero essere le prime barriere contro certi tipi di esternazioni: i club calcistici. L’Hellas Verona, nonostante le copiose segnalazioni fatte in diretta dei telecronisti e successivamente dai presenti allo stadio, nella giornata di ieri ha escluso ogni minimo insulto razzista nei confronti dei giocatori Kessie e Donnaruma durante il posticipo, con un tweet che sa molto di indulgenza per i tifosi delle Brigate Gialloblù, onde evitare abdicazioni o un calo degli abbonamenti per la stagione.
Alla base di tutto, detto ciò, il ministero dell’Interno ha notificato come il tifo organizzato in Italia sia composto di 328 gruppi attivi, 151 politicizzati, 40 sono di estrema destra e 41 di destra. Ai quali come freno la Figc ha deciso di riscrivere le norme sulla discriminazione nel corso delle partite.Il drastico calo dei fenomeni di razzismo si deve soprattutto ai nuovi criteri di colpevolezza: degli episodi, prima di arrivare a una denuncia, si valuta la durata, l’entità, la forza del coro razzista e il coinvolgimento attivo del pubblico
Il risultato? Nel corso della stagione 2018/2019 i casi di razzismo negli stadi della Serie A sono stati appena 7; un successo assoluto, viene da pensare. Ma non è così. Il drastico calo dei fenomeni di razzismo si deve soprattutto ai nuovi criteri di colpevolezza: degli episodi, prima di arrivare a una denuncia, si valuta la durata, l’entità, la forza del coro razzista e il coinvolgimento attivo del pubblico. Il tutto affidato al fischietto degli arbitri, i quali in quasi vent’anni di Serie A, mai si sono azzardati a sospendere una partita per motivi legati al razzismo.
Il perché è riconducibili a vari motivi, a partire dai costi che un rinvio di una gara può avere per i soggetti coinvolti, società e federazione, che per quanto opportuno non faciliterebbe i conti a fine stagione e gli appuntamenti fissati del calendario; per finire con il più recente caso di intimidazione da parte di una schiera di tifosi juventini – indegni di questa nomina -, orchestranti di un vero movimento sommerso e illegale.
Viene difficile, pertanto, credere al “tolleranza zero”, all’indignazione effimera e alla condanna formale. Resta difficile credere che lo stadio sia quello messo in versi da Camus. È difficile, ormai, assaporare una partita assistendo all’immobilismo generale, mentre a colpi di “uh uh uh” viene trafitta la pelle dei giocatori. È impossibile, o quasi, chiamare tutto questo calcio.