Fashion WeekLa svolta green della moda? È un senso di colpa grande come un elefante

Dopo l’Oil&Gas, quella della moda pare sia la seconda industria più inquinante al mondo. Ma da tempo le grandi case si sono svegliate dal loro torpore nemico dell’ambiente: ecco le iniziative che portano il settore dell’abbigliamento ad essere più sostenibile

Tolga AKMEN / AFP

La moda è secondo alcuni dati (ma si possono leggere in molti modi, quindi niente è assoluto) la seconda industria più inquinante del mondo dopo Oil & Gas. Ma se anche fosse terza o decima, il contenuto cambierebbe poco. Genera il 10% delle emissioni di carbonio, usa le tinture maggiormente inquinanti (72 sostanze tossiche, 30 permanenti), è seconda per il consumo di acqua (il 20%), abbatte 150 milioni di alberi per ottenere viscosa dalla cellulosa, diffonde tonnellate di microplastiche.

E basta, ci fermiamo qui. Tutto questo spiega come e perché siamo entrati ansiosamente nell’era del Fashion Revolution, e la parola “sostenibilità” sia la più pronunciata in questa settimana di sfilate milanesi (17-23 settembre). Bio-eco-green, è il mantra di Carlo Capasa, presidente della Cnmi. Ognuno poi declina a modo suo il concetto e ci tiene a farlo sapere. Prendiamo Prada: reti da pesca usate e rifiuti di plastica recuperati negli oceani, scarti di fibre tessili e vecchi tappeti rigenerati diventano un filo di nylon utilizzato per le costosissime borse. Il progetto Re-Nylon nasce dall’incontro con Aquafil, che firma l’Econyl, fibra eternamente riciclabile. Entro la fine del 2022, tanto Prada sarà tanto Econyl. Gucci (gruppo Kering) primo della classe, vuole rendere l’intera catena “carbon neutral” con quattro progetti di riforestazione e arrivare al 100% di energie rinnovabili già l’anno prossimo. Poi, al solito: niente pellicce, niente scarti, fibre naturali, minor consumo di acqua. Insomma, si parla più di clima che di vestiti, con uno strisciante senso di colpa: l’avvento delle catene di moda low cost, è stato determonante. Dal 2000 a oggi acquistiamo il 60% in più.

L’ossessione dell’upcycling che ha prodotto pezzi unici come il vestito con gusci di cozze è una sfida: fatturato + creatività + sostenibilità

Alla Fashion week milanese c’è l’ormai onnipresente Livia Firth con il suo green carpet, e c’è un premio, l’Eco Stewardship Award per i gondolieri veneziani che nel 2018 hanno indossato la lana Merino australiana, 100% naturale e rinnovabile. Se i colossi della moda firmano importanti accordi (in 32 hanno aderito al Fashion Pact) impegnandosi a ridurre l’impatto ambientale, non si può dire che alcune meravigliose idee come l’abito in filo di ginestra presentato da Cangiari e molto premiato, abbiano avuto un successo commerciale. L’ossessione dell’upcycling che ha prodotto pezzi unici come il vestito con gusci di cozze è una sfida: fatturato + creatività + sostenibilità.

Niente da fare: bisogna essere buoni. Timberland ha lanciato la collezione footwear ReBotl ( 5 modelli) che ricicla plastica non biodegradabile: la tomaia delle sneakers contiene 6/8 bottiglie di minerale. Adidas impiega la plastica-rifiuto dei mari. H&M promette entro il 2020 solo cotone biologico, coltivato nell’ambito della Better Cotton Initiative o riciclato. Dond’up ha il jeans a Km zero: 100% made in Italy, tessuto sostenibile di Candiani Denim (azienda riconosciuta “the greenest mill in the blue world”), lavaggi a basso impatto. Si usa meno acqua (-75%) meno energia (-58%), meno chimica,“ un investimento per il futuro del pianeta”.

Che la moda stia diventando spirituale, del genere “polvere sei e polvere tornerai?”

Quella che sembra una giacca è in realtà un compromesso storico tra etica e profitto. Si muovono con più agilità gli stilisti nati professionalmente nell’era della crisi. Come Gilberto Calzolari, vincitore del premio Franca Sozzani, creatore entusiasta degli abiti di sughero e paillettes recuperate, capace di mettere assieme una mise stile astronauta con il tessuto degli air bag e le cinture di sicurezza delle auto. La sua sfilata è in un deserto, come quello del mitico pianeta Dune (un film di Lynch tra i meno riusciti) con montagne di copertoni esausti. Il messaggio è sui cambiamenti climatici: “Tutto, qui, dal filo di cotone, alle cerniere, ai bottoni è sostenibile”. Scopriamo poi che il delizioso giubbotto di cotone, una volta distrutto, è compostabile (si mette nell’umido) e biodegradabile in un anno.

Che la moda stia diventando spirituale, del genere “polvere sei e polvere tornerai?” Che trovi la perfetta quadratura riciclando all’infinito la stessa fibra? Tutti sono agitati. Più che “una cosa di sinistra”, bisogna dire/fare “una cosa green”. Poi c’è chi alla sostenibilità ha sempre pensato, come Piero Cividini: “Siamo piccoli, possiamo usare materie prime organiche, pitture artigianali eseguite dentro botteghe storiche, scegliere tinture naturali e macchine di maglieria a mano”. Cividini è uno dei meno angosciati – su piazza da trent’anni – mentre la giostra ecogreen insegue l’Orange Fiber (tessuto ricavato dagli scarti delle arance, il Corn Fiber (dallo zucchero di mais, al momento utile per le imbottiture) o il Lyocell (dall’eucalipto e dal bambù, che hanno meno bisogno di acqua e pesticidi) e cerca di comunicare la nuova etica.

Che ansia. Sarà green l’ecopelle? Avrà controindicazioni la pelliccia fake? I direttori creativi che hanno vissuto gli anni gloriosi del lusso insostenibile, forse provano un leggero sgomento: quello che prima scartavano, oggi è al centro della tendenza. L’Andy Warhol di “Plastic is fantastic” sarebbe obbligato a un pubblico mea culpa. E a proposito, durante le sfilate, le vere fashioniste esibiscono la borraccetta di alluminio per l’acqua. Vade retro, plastica.

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