Responsabilità virtualiSnowden ti sbagli, un web meno controllato non è più libero

Nell'intervista rilasciata a Saviano Edward Snowden presenta il nuovo libro e parla di dati e privacy. Ma le motivazioni alla base della sua battaglia sono più nostalgiche che convincenti

Vuoi esprimere idee e perversioni inaccettabili senza essere giudicato? Comprati un diario. É questo il consiglio che vorremmo dare a Edward Snowden, dopo aver letto l’intervista rilasciata a Saviano e pubblicata su La Repubblica.

“Immaginate di trovare sul desk un documento con (…) i porno che avete visto e la mappatura di ogni commento stupido e sessista che avete fatto”. Apre così lo scrittore, con un massaggio alla paranoia indolenzita del lettore medio, spaventato dalla divulgazione di indicibili segreti e pronto ad appellarsi alla privacy, pur di non assumersi mezza responsabilità. Non intendiamo disquisire sulla bontà e validità della legge sulla privacy, sacrosanta, ma Edward Snowden, suo paladino, ha addotto delle motivazioni che beccheggiano, nonostante la bonaccia di opinioni omologhe e convenzionali.

Qui proveremo a contestarne alcune.

“(Sul web) potevo fare errori, potevo dire cose terribili. Oggi invece le persone sono desensibilizzate perché sanno che quello che hanno detto rimarrà, non puoi dire che era stato un errore e devi difenderti e giustificarti

Snowden difende un’idea campanilistica di internet, quella dominata dal terrore di ciò che gli altri potrebbero scoprire su di noi, che trasforma così gli spettatori illegittimi nei veri e propri registi della nostra vita. Come nei paesini.

Nell’intervista l’ex agente segreto difende un’idea campanilistica di internet, quella dominata dal terrore di ciò che gli altri potrebbero scoprire su di noi, che trasforma così gli spettatori illegittimi nei veri e propri registi della nostra vita. Come nei paesini. Teme il giudizio. Terribilmente. Si perde nell’ambivalenza della privacy, composta dalla dialettica tra nascondere e custodire: inesistente, dato che si tratta di sinonimi. Se vengo spiato mentre faccio sesso su Skype, può urtarmi l’idea che uno sconosciuto mi stia guardando? Certo. Anche se come scopata non deve essere stata un granché, dato che pensavo ad altro. Il sogno di Snowden è una Rete in cui essere liberi di non rendere conto a nessuno. Ma così dicendo suffraga la tesi di molti istigatori e avvelenatori del web, predicatori della virtualità, e impunibilità, del mondo informatico. Se scrivo “negro di merda” sul muro, oppure in un post, non cambia la gravità del gesto solo perché sono due luoghi ontologicamente diversi. Non esiste libertà senza regole e senza responsabilità, crescere significa accettarle non rimuoverle.

Quando condividiamo qualcosa sul Web, sappiamo che potrà essere sottoposto a violazioni, distorsioni, censure, ritorsioni e persecuzioni. Stessa cosa per il mondo analogico. Ed è la natura di quei contenuti che ci appare davanti agli occhi quando andiamo a dormire o ci guardiamo allo specchio. Bisogna avere il coraggio delle proprie azioni, su qualunque media avvengano. Sognare un internet privo di custodi (anche spioni e dispotici) significa costruirsi una doppia coscienza, tipicamente beghina, in cui lo spazio-tempo (in questo caso cibernetico) svolge una funzione redimente, a patto che si parli dei propri peccati solo con il parroco, e poi si spenga il pc della coscienza.

“Ma quando costruiscono un sistema che cataloga, immagazzina, sfrutta gli scambi tra esseri umani, per usarli contro di noi, devi stare in guardia e chiederti: e ora cosa ci succederà?”

Anche la peggiore distopia possibile, in cui uno Stato o un individuo tragga vantaggio dal ricatto, avverrà solo grazie ad un’infrazione legale o morale della vittima, conditio sine qua non di qualsiasi ritorsione.

Anche la peggiore distopia possibile, in cui uno Stato o un individuo tragga vantaggio dal ricatto, avverrà solo grazie ad un’infrazione legale o morale della vittima, conditio sine qua non di qualsiasi ritorsione. Dunque il potere di questa coercizione rimarrà nelle mani e nella coscienza del ricattato. Non bisogna attendere che qualcun altro conosca i nostri segreti per misurarci con i demoni che li proteggono. Sarebbe come aspettare di essere arrestati per scoprire di aver commesso un crimine, o avere un figlio per ricordarsi di aver fatto sesso.

“La tecnologia con cui interagivo non si ricordava di noi. Accendevo la macchina, la usavo e la spegnevo, e quando tornavo a usarla non si ricordava chi fossi o cosa avessi fatto l’ultima volta, non aveva memoria”.

La tecnologia come deposito immemore, un luogo in cui la rimozione personale collima con quella tecnologica, spazio anarchico di azioni non perseguibili perché irrintracciabili. La nostalgia per un modo digitale più naif e meno controllato è comprensibile, ma il diritto alla privacy può oscurare le responsabilità personali? E come si può individuare un crimine informatico se nemmeno le agenzie preposte alla sicurezza e alla vigilanza possono accedere alla nostra intimità?

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