I premi letterari antepongono le tendenze, da seguire o indirizzare, al valore dei romanzi. Moltiplicano le vendite con un marchio di qualità che spesso inacidisce col tempo, come i vini novelli. Assecondano interessi industriali a discapito di quelli culturali. Sottomettono il collettivo al corporativo. E si risolvono in grandi abbuffate.
Non è una novità e oggi non è più dietrologia. Visto, si Prepari! I retroscena dei premi letterari, è il libro realizzato dagli studenti del master in “Professioni e prodotti dell’editoria” del dell’Università di Pavia, dove si esaminano carteggi e dichiarazioni di grandi e piccoli scrittori, delusi i primi e deludenti i secondi, che incidono su carta l’universo di compromessi caracollanti dei concorsi letterari, finora denunciati ma mai certificati, messi al servizio di una cultura tipicamente clientelare: quella italiana.
“Un voto sofferto ma convinto, quello di Elisabetta, decisa a premiare “Diceria dell’untore” ma allo stesso tempo pressata dal fratello Vittorio affinché votasse per Anna Banti. Quest’ultima, a quel tempo, dirigeva “Paragone”, rivista per la quale i giovani critici d’arte come Vittorio Sgarbi ambivano a scrivere” si legge nel capitolo dedicato al Campiello del 1981, dove sembrano affiorare logiche arrivistiche, che confondono il riconoscimento con lo scambio. Una prassi consolidata in un Paese che nelle raccomandazioni ricerca un credito presso il candidato prescelto, quasi mai insolvente.
Le prime denunce alle torbide logiche praticate nei concorsi iniziano con Moravia, continuano con Pasolini e esplodono nel ‘99 con i Luther Blissett che, in una breve classifica, denunciano: «Il premio Strega è più truccato di Sanremo».
Le prime denunce alle torbide logiche praticate nelle competizioni iniziano con Moravia, continuano con Pasolini e esplodono nel ‘99 con i Luther Blissett che, in una breve classifica, denunciano: «Il premio Strega è più truccato di Sanremo». Agli evidenti limiti deontologici presenti nei criteri adoperati dai giudici si accostano quelli umani di molti scrittori. Come quelli di Fenoglio, che ritirò la propria candidatura dallo Strega del ’59 millantando disinteresse per le competizioni letterarie, salvo ampliare la propria collezione di articoli di giornale dedicati al premio stesso, come il più classico dei detrattori. Il suo passo indietro fu in realtà un ordine di scuderia della Garzanti, intenzionata ad assicurare la vetta del podio al protetto Pasolini, beffato poi dalla pubblicazione postuma del Gattopardo.
Mondadori suggerì così che la disobbedienza di Pasolini e Barolini fosse dovuta alla cultura sottesa ai concorsi, e non agli stessi, smacchiandoli così da qualsivoglia accusa di parzialità.
Quando Pasolini e Barolini si ritirarono dal premio Strega, secondo Arnoldo Mondadori addussero come giustificazione “il malcostume e l’«incultura» di un premio, la sua obbedienza a finalità non culturali, ma industriali e clientelistiche.” L’amministratore delegato dell’omonima casa editrice si domandò “fino a che punto è responsabile dei disordini dei premi letterari l’industria culturale e fino a che punto ne è responsabile la stessa cultura ?”, suggerendo così che la disobbedienza dei due autori fosse dovuta alla cultura sottesa ai concorsi, e non agli stessi, smacchiandoli così da qualsivoglia accusa di parzialità.
Finché il mondo dell’editoria ricercherà la legittimazione culturale della critica, la quale troverà nell’industria un’alcova all’altezza delle proprie ammucchiate, l’imparzialità, la meritocrazia e il talento difficilmente emergeranno sotto il peso di interessi ben più tangibili. Dunque che fare? Rinunciare alle direttive dell’intellighenzia e rassegnarsi a spulciare 60mila pubblicazioni ogni anno? O progettare una piattaforma in stile Rousseau per selezionare i libri più meritevoli, rimpiangendo così il vecchio e corrotto sistema di spintarelle celato sotto i concorsi più istituzionali?
Nell’attesa di dissipare questo dubbio, ci dedicheremo alla lettura dei retroscena.