Più karaoke per tuttiChe palle, lasciate che Achille Lauro canti e sporchi le canzoni di Tenco

Invitato al Premio Tenco, “AL” si è esibito, a modo suo, in “Lontano lontano”. Per giunta accompagnato da Morgan al piano. Non una grande esibizione, che però ha scatenato la solita polemica del partito del “giù le mani da Luigi” contro il trap

Accade che, nel più rispettato e serioso appuntamento dedicato in Italia alla musica d’autore, il Premio Tenco, venga invitato a partecipare Achille Lauro. Non è un fatto sconcertante: da tempo l’evento dedicato a uno dei padri fondatori della nostra migliore canzone apre le porte a talenti giudicati a vari gradi di maturazione, fin troppo perennemente “emergenti”, accreditati del merito di polarizzare l’attenzione del pubblico e comunque di scrivere quella che di fatto è la nuova canzone italiana, qualsiasi sia l’opinione ne possiate avere.

Per cui: Achille Lauro. Che per una muscolare minoranza è un innovatore, capace di convogliare nei suoi pezzi una tale quantità di fattori, da risvegliare l’interesse e sospingere spericolate teorie del riflusso, dell’eccesso, della rivisitazione di un linguaggio, corrotto, più che contaminato, da invincibili fattori endogeni. Che coincidono col vissuto dei ragazzi che vengono su adesso in Italia – desideri, citazioni, creazioni e confusioni incluse. Insomma, è una scelta saggia che, per fare il punto sullo stato di salute della nostra canzone, sul palco del Tenco arrivi Achille Lauro – e con lui mettiamoci Ketama e Massimo Pericolo e ovviamente Coez e Sfera, che adesso cantano ciò che abita nelle cuffie del pubblico che è il principale consumatore delle cose nuove, lasciando da parte giudizi, graduatorie, confronti e distinguo. Sono loro, e tanti altri come loro, magari solo l’anno scorso, chessò Frah Quintale, Gazzelle e Will Coyote, sono loro la musica italiana di fine anni Dieci, che ha lo stesso successo e lo stesso potere di rappresentatività di quella di mezzo secolo orsono, per chi allora aveva vent’anni.

Achille s’è attorcigliato all’asta microfonica e ha cominciato a stonare sonoramente buona parte della prima strofa. Poi si è un po’ ripreso, ha raddrizzato la barca e l’ha portata in fondo senza altri sussulti

Achille Lauro, poi, quest’anno ha fatto anche altro: a cominciare da una clamorosa discesa nell’Ade di Sanremo, con un pezzetto rock’n’roll (“Rolls Royce”) che fondeva Billy Idol, Bret Easton Ellis, Oviesse e un look memorabile, come un Gucci de borgata al color di marmellata, che di sicuro ha raccolto la benedizione di Alessandro Michele e anche quella di Cristiano Malgioglio.

Quindi eccolo: un composto applauso, un sorriso e un microfono per AL, benvenuto al Premio Tenco. Non fosse che costui, irriverente e irriconoscente, cosa fa, se non prendere in parola l’invito, pensando d’esibirsi, a modo suo, proprio in uno dei capolavori del compianto Luigi, il venerato “Lontano lontano”, che di per sé una pagina delle antologie d’italiano la merita tutta. La versione, va detto, è povera cosa: complice, come unico accompagnatore, Morgan nei panni, mi auguro caricaturali, del “pianista pazzo”, Achille s’è attorcigliato all’asta microfonica e ha cominciato a stonare sonoramente buona parte della prima strofa. Chissà, problemi tecnici, eccesso di disinvoltura esecutiva, forse gli è proprio venuta male – succede. Poi si è un po’ ripreso, ha raddrizzato la barca e l’ha portata in fondo senza altri sussulti, ma insomma a noi piace di più quando fa il verso ai Sigue Sigue Sputnik. Dev’essere il frutto della sua psicologia, che evoca un Ninetto Davoli meets Tadzio, insomma al prodotto di un’inaccettabile velocità decisionale, per chi ancora si crogiola nella sofferenza delle scelte: Achille Lauro pare avere sempre ben chiaro dove e come andare e se si tratta del Premio Tenco, pensa di osare (inconsapevolmente) l’inosabile, ovvero di cantare una canzone dell’intitolato.

Noi ci schieriamo dalla parte della barricata dove pare che ci si diverta di più. Dove fanno le feste, mettono impunemente le mani sulle canzoni altrui e si vestono in quei modi meravigliosi. Inneggiando al “più karaoke per tutti”

Poi, apriti cielo: su quei tre minuti si è scatenata la buriana. Il partito del “giù le mani da Luigi” è sbottato a mitraglia social nel più plateale spettacolo d’intolleranza, da quando San Siro ha fatto capire a Koulibaly di che pasta sono fatti gli italiani. La vergogna del capolavoro sporcato è stata l’occasione per farneticare che con questo trap questi giovanotti hanno inaccettabilmente rotto le palle. Che la Storia merita rispetto, che i grandi si girano nelle tomba, o peggio, se vivi, soffrono in silenzio. Che a questo punto la vera canzone italiana andrebbe dichiarata morta, non fosse che ci sono i capolavori immortali e la contraddizione è flagrante. E che comunque questo branco d’ignoranti rosa shocking badi bene a dove mette l’ugola, perché coi santi non si scherza.

Qualcuno – pochi, però Fiorello – ha provato a minimizzare: dai, sò ragazzi, le gerarchie le conosciamo tutti, e perché non provare a pensare che anche Achille sia un artista vero – solo diverso? E che soprattutto non è bello quel che è bello, ma è bello quel che piace. E però, col passare delle ore la protesta non s’è placata: si sono rotte le acque, quelli del vinile nel cellophane stavolta hanno sbroccato davvero. Il sipario è strappato, la violazione consumata, il sacrilegio imperdonabile: quella è la nostra musica, i nostri eroi. Giù le mani. Non v’azzardate, non vi avvicinate. Non toccate il monumentale oggetto culturale nascosto dentro quei versi. Che al massimo potrebbe cantarlo Sergio Cammariere, non questo pagliaccio.

Insomma, è tutto molto bello: un senso di deflagrazione, di scontro frontale a lungo rinviato ma adesso inevitabile, che lascia presagire un estremo disordine e alcuni pogrom nell’immediato della canzone italiana. Noi, tanto per dire, ci schieriamo dalla parte della barricata dove pare che ci si diverta di più. Dove fanno le feste, mettono impunemente le mani sulle canzoni altrui e si vestono in quei modi meravigliosi. Inneggiando al “più karaoke per tutti”.