Di crisi in crisiAlitalia, Ilva, Whirlpool: le grane lasciate in eredità da Di Maio al Mise

Dopo il rilancio di Lufthansa, il salvataggio di Alitalia è ancora in alto mare. Su Whirlpool ora è sceso in campo pure Conte per cercare di mettere una pezza. E su Ilva i grillini al Senato sono più divisi che mai

Alitalia, Ilva, Whirlpool. La lista delle patate bollenti lasciate in eredità al ministero dello Sviluppo economico da Luigi Di Maio al collega di partito Stefano Patuanelli ha in cima tre crisi aziendali pesanti. Tutte irrisolte e ancora in alto mare, con i negoziati da rifare. Tanto che, in extremis, per cercare di mettere una pezza, sul caso Whirlpool è sceso in campo pure il presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Sul fronte Alitalia, a pochi giorni dalla scadenza del 15 ottobre (data ultima per presentare il piano industriale già prorogata per la sesta volta), il tavolo è stato nuovamente ribaltato. Con una lettera spedita martedì, Lufthansa propone di stringere una partnership con la Nuova Alitalia che dovrebbe nascere dall’offerta di Fs insieme ad Atlantia, proponendosi quindi come alternativa a Delta. La lettera, inviata a Fs, governo e Mise, a questo punto potrebbe far fuori gli americani. Cosa che non dispiace affatto ad Atlantia. Tant’è vero che da Londra Luciano Benetton non ha perso tempo per lodare Lufthansa, dopo il braccio di ferro ingaggiato con Delta sulla questione delle rotte transoceaniche, che gli americani non vogliono incentivare ma che potrebbero invece giovare ad Aeroporti di Roma, controllata da Atlantia. Un cambio delle carte in tavola non da poco, dopo che i Benetton avevano messo in discussione la loro partecipazione al salvataggio della compagnia aerea in caso di una revoca o mancato rinnovo delle concessioni autostradali da parte del governo. Il ricatto – ammettono gli osservatori della trattativa – era stato frutto di un errore strategico da parte del governo che pensava di poter giocare separatamente le due partite. Ma a questo punto, con il placet di Atlantia su Lufthansa, i discorsi sui ritocchi alle quote di Delta potrebbero passare in secondo piano. Anche se, c’è da dire, Lufthansa non intendere entrare nel capitale, mentre Delta ha confermato il suo impegno per l’acquisizione di una quota del 10%. Il vettore tedesco, inoltre, si è sempre detto interessato a un’Alitalia ristrutturata e magari pure senza la presenza dello Stato nelle compagine azionaria.

Il puzzle si complica e la scadenza del 15 ottobre per la presentazione dell’offerta è alle porte. La preoccupazione sul destino della compagnia resta. Soprattutto dal lato dei lavoratori. «Di Maio aveva promesso un ruolo del governo da regista e non da spettatore delle trattative, invece come si vede sta avendo solo un ruolo da spettatore», dice Fabrizio Cuscito, segretario nazionale Filt Cgil. Le carte sul tavolo cambiano, senza che sia il governo a decidere, nonostante sia previsto l’investimento pubblico con la partecipazione del Mef.

Su Alitalia Di Maio aveva promesso un ruolo del governo da regista e non da spettatore delle trattative, invece come si vede sta avendo solo un ruolo da spettatore

Piani industriali, tra l’altro, i sindacati ancora non ne hanno visti. Dalle indiscrezioni, per il piano Delta si parla di 2.500 esuberi, per quello Lufthansa si arriva a 3mila. E la promessa fatta da Di Maio di nessun taglio per i lavoratori della compagnia è stata smentita pure dallo stesso Patuanelli appena approdato al Mise. La differenza tra i piani Delta e Lufthansa, però, sarebbe anche nel diverso grado di contrazione delle attività previsto: gli americani puntano a una riduzione della flotta aerea dalle 117 attuali a 100 unità, i tedeschi scendono a 74. In entrambi i casi, non ci sarebbero grosse prospettive di rilancio, spiegano fonti sindacali.

Ma più si perde tempo, più si avvicina la possibilità di una settima proroga, che continuerebbe ad assottigliare le casse della compagnia, rendendola sempre più debole e soggetta a facili svendite. La previsione, pare, sarebbe quella di arrivare a fine 2019 con circa 150-200 milioni in cassa. Di qui, l’ipotesi di un nuovo prestito di circa 300 milioni. Dopo che, sempre Di Maio, aveva solennemente promesso che gli italiani non avrebbero più dovuto mettere soldi in Alitalia. In una gestione della crisi più elettorale che di vera politica industriale.

Con l’aggravio che ora si pone anche la questione del Fondo di solidarietà per il trasporto aereo, che scade il 31 dicembre. La scorsa legge di bilancio prevedeva un dimezzamento per il 2019 e l’azzeramento dal 2020. Un eventuale rifinanziamento dovrebbe essere inserito nella manovra, ma ad oggi non si hanno notizie. Mentre la partita è tutt’altro che risolta.

Si parla di un nuovo prestito e migliaia di esuberi, mentre l’ex ministro aveva promesso che gli italiani non avrebbero più messo soldi in Alitalia e che non ci sarebbero stati tagli del personale

Così come traballa ancora, e non poco, il dossier sullo stabilimento napoletano di Whirlpool, dove lavorano 420 persone. A cercare di gestire il caos lasciato da Di Maio ora si è messo in mezzo pure Conte, che ha riaperto la trattativa a Palazzo Chigi, insieme al ministro Patuanelli, incontrando i sindacati e annunciando un secondo vertice con la multinazionale, che già aveva avviato la procedura di cessione alla svizzera Prs (che produce container refrigeranti). Lunedì scorso l’ad di Whirlpool Italia, Luigi La Morgia, ha inviato una lettera in cui conferma la riconversione industriale del sito, dicendosi però disponibile a sospendere la procedura del ramo d’azienda fino al 31 ottobre. La procedura attuale scade il 12 ottobre, con effetto dal 1 novembre. Per cui l’apertura dimostrata dall’azienda è solo formale. Insomma, una presa in giro, secondo i sindacati.

E soprattutto si tratta di una sospensione, non di una interruzione. La richiesta delle parti sociali è quella di chiedere a Whirlpool di rispettare l’accordo del 25 ottobre 2018 su investimenti e produttività. Un accordo che l’azienda, quando al Mise c’era Di Maio, aveva già aggirato. E inutili erano stati i 16,9 milioni di euro che il governo aveva messo nel decreto salva imprese. A inizio settembre Whirlpool ha fatto sapere che il decreto non sarebbe servito a garantire la sopravvivenza di lungo periodo dello stabilimento. E alla fine, dopo più di un anno di tavoli di incontri e negoziati, manifestazioni e proteste dei lavoratori, ha annunciato la vendita del sito di via Argine alla Psr. Nessuna sorpresa. Gli stessi sindacati avevano ammesso di aver avvertito Di Maio che il provvedimento del governo non sarebbe stato sufficiente a far cambiare idea alla multinazionale americana. E avevano chiesto di modificare le cifre sul tavolo. Niente da fare.

L’azienda in questi mesi si è mossa senza scrupoli. Trovando però dall’altra parte negoziati e negoziatori deboli. Con Conte che ora prova in extremis a recuperare il tempo perso da Di Maio. Così come aveva fatto Renzi quando intervenne per spingere la chiusura dell’accordo sindacale sempre con la Whirlpool dopo l’acquisizione della Indesit. E così come aveva fatto Paolo Gentiloni con ArcelorMittal e l’Ilva.

La Corte costituzionale ha rimandato gli atti al gip di Taranto, visto che la legge sull’immunità di Arcelor è cambiata per due volte nel corso del 2019 per via dell’ennesima giravolta grillina

E pure la questione dell’Ilva, di cui i Cinque Stelle avevano promesso la chiusura salvo poi cambiare idea, resta ancora una questione aperta. O meglio, ad essere ancora aperta è il nodo dell’immunità penale concessa ad Arcelor Mittal per l’attuazione del piano di tutela ambientale e sanitaria dell’acciaieria di Taranto. La Corte costituzionale, che doveva pronunciarsi sulla costituzionalità dello scudo, ha rimandato gli atti al gip di Taranto perché valuti se ci siano ancora i presupposti per porre la questione di costituzionalità. Visto che la legge è cambiata per due volte nel corso del 2019, per via dell’ennesima giravolta grillina.

I Cinque stelle prima hanno inserito nel “decreto crescita” la revoca dell’immunità penale, poi – davanti alle minacce di Arcelor di lasciare Taranto – hanno inserito una immunità parziale nel “decreto salva imprese”, che ora è in fase di conversione in legge a Palazzo Madama. Una scelta, quella della parziale apertura, che non va giù alla fronda pugliese dei Cinque Stelle, capitanata dall’ex ministro del Sud Barbara Lezzi, ancora infuriata per esser stata scartata dalle cariche di governo nel nuovo esecutivo. Si era parlato addirittura di un emendamento 5S-Leu per bloccare l’immunità parziale. E a quanto pare ci sarebbero almeno dieci senatori grillini tra i dissidenti anti-Di Maio pronti a non votare la legge a Palazzo Madama.

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