Sembrava una faida familiare, è diventata una polemica culturale. Ha scosso la Norvegia, dove è sorta, è poi approdata alla Fiera del libro di Francoforte fino a conquistare le pagine del New York Times. Sintetizzandosi in una domanda: come si conciliano, al giorno d’oggi, il rispetto della privacy e la necessità letteraria delle autobiografie?
All’origine di tutto c’è lo scontro tra le due sorelle Hjorth: Vigdis, la maggiore, è balzata ai primi posti delle vendite con il suo romanzo (autobiografico, appunto) in cui racconta il dramma familiare della scoperta, tardiva, di un abuso sessuale compiuto dal padre su una bambina – e la frattura che ne è conseguita. Tradotto anche in inglese (con il titolo Will and Testament), il libro è stato selezionato per la longlist del National Book Award 2019. È un esemplare perfetto del filone della Vircheligetslitteratur scandinava, cioè di quella “fiction della realtà” che traduce in forme narrative romanzesche particolari della vita privata.
La sorella minore, cioè Helga Hjorth, non è stata da meno e ha risposto con un altro romanzo, anche questo autobiografico, che racconta lo sconvolgimento della vita di una signora dopo la pubblicazione dell’autobiografia della sorella maggiore, piena di menzogne e accuse infondate.
Se a tutto questo si aggiunge il caso del loro connazionale Karl Ove Knausgaard, che nel suo monumentale ciclo di romanzi La mia lotta ha inserito dettagli personalissimi sulle sue due ex mogli (una delle quali, la seconda, ha risposto con un documentario e poi, come sembra ormai essere costume nazionale, con un altro libro), e se si considera la coincidenza del film francese Le Verità, basato sul conflitto tra una madre famosa e la figlia innescato dalla pubblicazione di un memoir pieno di inesattezze e invenzioni autobiografiche, si può dire che la questione colga davvero dei tratti problematici.
«È che in Norvegia siamo pochi. Tutti conoscono tutti, o quasi»
Alcuni minimizzano, come fa Geir Gulliksne, editor di Knausgaard. Nel suo caso, i libri vengono mandati prima della pubblicazione a tutte le persone coinvolte nella storia: possono scegliere se lasciare il proprio nome o adottare uno pseudonimo. Ma rispetto alla massa di dettagli e informazioni private messe in mostra – e, si può aggiungere, alla curiosità di chi vuole farsi gli affari altrui – appare un rimedio quanto meno insufficiente. Che fine fa la tutela della privacy?
È, di fatto, una nuova declinazione, molto poco accademica, del conflitto ormai classico tra “fiction” e “realtà”. E poiché sembra voler porre limiti alla scrittura (cioè all’arte) in nome del rispetto della sfera personale di qualcuno, si potrebbe perfino dire che arriva a toccare la dicotomia tra etica ed estetica.
Si esagera? Meglio tornare a terra, allora e fare come Ane Farsethaas, giornalista culturale del quotidiano norvegese Morgenbladet, che – come nota il New York Times, riduce tutto a una questione di nazionalità. «È che in Norvegia siamo pochi», dice. «Tutti conoscono tutti, o quasi». Oppure come fa il critico Preben Jordal, che lo interpreta come una questione di galateo: «Noi siamo abituati a essere, per dovere, simpatici con tutti. È uno shock allora quando uno scrittore è scortese con la madre o la nonna».
Una posizione minimalista, insomma, che – si suppone – non riuscirà a placare le polemiche. Del resto, al di là delle questioni di principio, gli ultimi a volerlo fare sono proprio gli editori. Ogni discussione, almeno in Norvegia, alimenterà il mercato librario e, ne consegue, farà crescere le vendite. Con il filone sempre fertile del mettere in piazza i fatti propri.