Franco Battiato non sta bene, come capita a ciascuno di noi. Rispettiamo la sua malattia, a distanza e senza dilungarci. Nel frattempo esce, inatteso, un suo nuovo album e le polemiche montano nervosamente. Non basta una guardinga conferenza di presentazione a tenere a bada il diffuso fastidio verso l’operazione. Che poi consiste in una raccolta di 15 brani, 14 già editi e tra i suoi più famosi (“Le sacre sinfonie del tempo”, “Povera Patria”, “Perduto Amor”, “La Cura”, “E ti vengo a cercare”, “L’era del cinghiale bianco”…) e un inedito scritto da Franco con Juri Camisasca, “Torneremo Ancora”. Il tutto registrato con la Royal Philarmonic Concert Orchestra diretta da Carlo Guaitoli in occasione di un brevissimo tour nel 2017, per lo più nelle prove dei concerti.
L’inedito, in particolare, è frutto di un lavoro di assemblaggio più complesso, curato da Pino Pischetola, fedele ingegnere del suono di Battiato, che ha congiunto un’esecuzione vocale dell’artista risalente a quel periodo (per un pezzo scritto per Andrea Bocelli su sollecitazione di Caterina Caselli) con una successiva e più recente orchestrazione della Royal Philarmonic. Le liriche del brano affrontano temi cari a Battiato, la trasmigrazione delle anime, l’ascesi, la purificazione, la liberazione spirituale. Il canto di Franco è flebile e incerto, ma solenne, sapiente e dolce, mentre la partitura dell’orchestra è ricca e perfetta, come sua abitudine e tradizione. «Non rispondiamo alle polemiche. Questo è assolutamente un disco ufficiale di Franco», s’è affannato a dire Pischetola, davanti ai sopraccigli che si alzavano, mentre s’animava l’arsenale della delegittimazione: «Dov’è Battiato?» hanno preso a invocare le cronache, denunciando l’ennesimo caso di squallido sfruttamento commerciale di una personalità usata alla stregua d’un fantasma vivente – rilanciando il valzer del «tengono in vita qualcosa che è già morto» pronunciato da Roberto Ferri, collaboratore del passato, nella crudele descrizione della dissoluzione intellettuale di Franco in un’intervista a Fanpage.
L’operazione, dunque, non è stata fatta passare: «È proprio Battiato che manca» scrive un settimanale. Del resto, mentre ormai la nuova scena musicale italiana va definendo le sue gerarchie con effervescenza, le vicende della vecchia scuola sempre più spesso appaiono tetre, tra pensionamenti, ritiri, lutti e malinconie. Tutti motivi per cui s’arriva sfiduciati alla fatale operazione di dare un ascolto a “Torneremo Ancora”, convinti ormai della cinica operazione condotta dalla solita major e da un entourage senza scrupoli. Poi, ovviamente, succede il contrario. Perché questo disco ha un senso, un contenuto e anche delle forme lussureggianti. Il canzoniere di Battiato non è in discussione. La sua performance vocale non è certo a livelli sublimi, ma è educata e disciplinata, stanca e guardinga, comunque traversata da quella che una volta si definiva “classe innata”.
E poi c’è il lavoro della Royal Philarmonic: smagliante, straordinario anche nelle spericolate ridondanze, capace di un’ampiezza e di una cifra stilistica che si accosta alla meraviglia della scrittura originale di Battiato
E poi c’è il lavoro della Royal Philarmonic: smagliante, straordinario anche nelle spericolate ridondanze, capace di un’ampiezza e di una cifra stilistica che si accosta alla meraviglia della scrittura originale di Battiato. Ci sono espedienti emotivi, diminuite galeotte, pianoforti liquidi e archi che somigliano a maestrali di primavera ma, diavolo, stiamo parlando della musica di un grande visionario popolare, di uno sperimentatore conquistato dalla mistica, di un alchimista della canzonetta… Attraversare la sequela di brani che appartengono al nostro condiviso è un viaggio che ha del turistico, però con la sicurezza di un’agenzia di viaggi a cinque stelle, che sa dove e come portarci.
Si arriva alla fine commossi e appagati, di sicuro non afflitti dallo spettro di un cantante, piuttosto sedotti dalla sua capacità di gestire la lontananza. E forse anche il succedersi delle stagioni, il morbido avvilirsi sul tempo che passa. Di fatto, immutato è il rispetto e congruo è il prodotto: questo disco che ha sapori conclusivi («non c’è altro nei cassetti» dicono i suoi), possiede la potenza della rivisitazione consapevole. Torna in mente la prima volta che vedemmo Battiato, nella Milano dei primi Settanta. Un teatro mezzo vuoto, uno show pomeridiano, lui vestito con una tuta arancione da astronauta e la criniera scarmigliata, zompettante davanti a un Arp 2600 come ne avevamo visti manipolati solo da Brian Eno. Fin quando s’infilava a quattro zampe, con nostro stupore e divertimento, in un gigantesco tubo di plastica che finiva in platea, perché quella che cantava era l’epopea di “Fetus”. Il genio si stava allenando.
Una sera ci invitò a casa a sentire cose appena scritte. Un appartamento modesto a Milano, profumi di meridione, un pianoforte verticale, la mamma che chiedeva se volevamo mangiare qualcosa, che mica potevamo essere tutti così magri. Franco adesso si riposa, ma i suoi suoni, con una quale magia, hanno trovato il modo di rinnovarsi perfino in quest’album. Non siate spocchiosi e ascoltate: anche gli appunti di Freud o gli schizzi di Modigliani meritano un sguardo curioso e un po’ famelico.