Hanno a cuore la salute degli utenti. E la filantropia non c’entra. La recente invasione di applicazioni di fitness è solo l’ultimo escamotage delle compagnie tech per appropriarsi di dati sensibili.
Raccolgono informazioni di ogni tipo: calorie ingerite, durata degli allenamenti, stato e mese di gravidanza, oscillazioni del peso, malattie degli utenti (per i diabetici ci sono suggerimenti ad hoc). Gli orologi biometrici completano i profili con la misurazione del battito cardiaco, la qualità del sonno, la pressione arteriosa, l’indice di massa magra, la disidratazione della pelle, i livelli di glucosio, le calorie consumate.
Proiettati su dei grafici, con tanto di report sulle prestazioni, questi dati vengono gentilmente offerti dai fruitori, estasiati dall’idea di un personal trainer-nutrizionista-cardiologo a portata di click. Ammessa l’attendibilità delle rilevazioni e la validità dei consigli personalizzati, ci concediamo il lusso di chiederci: che fine fanno queste informazioni? Come vengono trattate da aziende quasi mai no-profit? Quanto valgono se monetizzate?
Il valore economico è inestimabile: è impossibile dire quanto valgono perché «costituiscono un bene che non si estingue: sono la risorsa rinnovabile più preziosa del mondo»
Iniziamo dall’ultima: il valore economico è inestimabile. Secondo Isabella de Michelis, fondatrice di ErnieApp, un servizio che aiuta i non iniziati a gestire i consensi sulla privacy, è quasi impossibile dire quanto valgono perché «costituiscono un bene che non si estingue: sono la risorsa rinnovabile più preziosa del mondo». Il loro valore è proporzionale al numero di dati con cui vengono incrociati: per questo le collaborazioni fra app sono così frequenti.
Sebbene sostengano di non vendere questi dati a terzi, molte di queste società ammettono di condividerli con altre realtà con cui collaborano. Centinaia di attori. Il problema non è il GDPR in sé, ma il momento storico in cui è stato redatto. Nato 10 anni fa, la sua intenzione principale «non era collegata al risvolto economico delle informazioni, ma alla loro protezione da intrusioni esterne».
La sua duplice base legale, legittimo interesse e consenso espresso, spinge «alcune aziende ad optare per la trasparenza per motivi strategici, mentre altre si rifugiano nel legittimo interesse» grazie al quale possono trattare i dati personali per finalità di marketing diretto. Dunque il trucco sta nel creare delle applicazioni i cui servizi essenziali coincidano con la prima base legale, aggirando di fatto la seconda.
I compratori sono sempre li stessi: Microsoft, Apple, Google e pochi altri, i soli con la potenza di calcolo necessaria per gestire questi flussi di informazioni trasformandoli in prodotti da rivendere ad assicurazioni, case farmaceutiche, catene di abbigliamento
«La GDPR sta stringendo il cerchio intorno ai furbi» continua la De Michelis. Tra tutti i dati personali ha definito quelli sulla salute come sensibili «per i quali serve il consenso espresso». Le aziende lo sanno ma molte persone no. Finché non lo chiedono sulle interfacce delle applicazioni che usano «c’è sempre qualche azienda che tira dritto e la fa franca. La nostra app infatti analizza e “compara” i privacy setting e li spiega in modo facile, cosicchè le persone possano farsi una idea tra chi bara e chi no».
L’ oligopolio dei dati è «a livello di processamento, non di raccolta». Per questo nonostante le centinaia di app, i compratori sono sempre gli stessi: Microsoft, Apple, Google e pochi altri, i soli con la potenza di calcolo necessaria per gestire questi flussi di informazioni e rivenderli e ad assicurazioni, case farmaceutiche, catene di abbigliamento.
La rivoluzione epocale sta nella supremazia della qualità sulla quantità, infatti «non si dovrebbe parlare di big data, ma di dati contestuali». Gli algoritmi iniziano a preferirne pochi ma qualificati, di origini diversificate ma con alti livelli di correlazione e attendibilità. Esattamente ciò che offrono le app di fitness.
Dunque le nostre attività fisiche, o almeno tutte quelle che vengono catalogate e trattate da servizi digitali, hanno un valore economico. Immenso.
È tempo di riappropriarcene.