Sarà forse per il record di partecipazione (93 film candidati, mai così tanti), o per la qualità stessa delle opere presentate. Ma l’edizione 2020 del premio per il miglior film internazionale (regole chiare: non statunitense, non troppo in inglese) promette già bene. Sul vincitore, le valutazioni sono premature, anche se la critica e le giurie internazionali si sono già sbilanciate: ottima posizione per Il parassita, commedia nera sudcoreana di Bon Jooon Ho, forte anche del suo successo a Cannes. Buona anche quella del francese Les Miserables, che racconta su più livelli le difficoltà dell’integrazione parigina, fino allo scoppio della rabbia finale tra classi e generazioni. Degne di nota sono anche le prime volte: quest’anno ci sono anche Uzbekistan, Ghana e Nigeria (tardiva, vista la ormai affermata produzione cinematografica), tre prove molto diverse tra loro.
Un numero così alto di partecipanti, poi, è anche una occasione importante per tentare esplorazioni più ampie (con tutti i benefici di inventario del caso). È vero che ogni film è un mondo a sé, per poetica e stile e, soprattutto, per le tensioni che sceglie di esplorare. Ma appunto: quali sono queste tensioni che ogni Paese ha scelto di mettere in scena? La lista è lunga e le realtà geografiche sono diverse (per non parlare delle rispettive tradizioni cinematografiche). Ma basta accostarli e già, in una sorta di campionato globale, si possono intuire filoni, movimenti, atteggiamenti comuni.
È fortissimo, per esempio, il bisogno di fare i conti con il passato recente. Lo fa l’Albania, con il suo La delegazione, di Bujar Alimani, che attraverso una storia sgangherata e improbabile racconta gli ultimi giorni, assurdi e inefficienti del regime. Ma anche la Colombia, che rimette in scena il mondo dei guerriglieri (stavolta minorenni) nel suo Monos di Alejandro Landes, che ha già scatenato un putiferio in patria proprio a pochi anni dallo storico accordo con le Farc. Le stesse tensioni (che del resto affiorano nel Traditore, di Marco Bellocchio, su Buscetta) si ritrovano in Lengthy night, di Edgar Baghdasaryan, il candidato armeno, che addirittura mette a confronto tre diverse epoche storiche, o nel belga/guatemalteco Nuestras Madres, girato da César Diaz sugli sviluppi della guerra civile in Guatemala. Da segnalare, in questo senso, il libanese1982, di Oualid Mouaness in cui il montare delle ostilità nel Paese si intreccia con le vicende di un gruppo di studenti che si preparano al diploma e con una storia d’amore non dichiarato (non ci sarà tempo, la guerra arriverà prima) e il più allegro La odisea de los giles, di Sebastián Borensztein, argentino che parla di crisi argentina e di un gruppo di vicini intenzionati a prendersi una vendetta negli anni terribili del corralito. Rientra sempre nel filone il documentario israeliano di Yaron Ziberman, che torna a indugiare sull’assassinio di Yithzak Rabin, stavolta raccontandolo dal punto di vista dell’omicida.
È una forma di presa di coscienza, o di autocoscienza, in un certo senso. Non mancano perciò i film sull’Olocausto, come l’ungherese Those Who Remained, di Barnabás Tóth, il lettone The Mover, di Davis Simanise, e il ceco L’uccello dipinto, in bianco e nero e girato in interslavo, una lingua artificiale che risulta comprensibile a tutti gli slavi, mentre il Cile torna sugli anni di Allende e sul fenomeno della radicalizzazione a destra (Spider, di Andrés Wood). A Cuba si punta su un episodio minore della storia più vicina, cioè l’incontro con un gruppo di bambini malati di Cernobyl malati e delle imprese compiute dal loro traduttore. Una piccola gemma.
Notevole è il ricorrere del tema dell’omofobia nelle pellicole sudamericanea
Il passaggio ai tempi attuali è obbligato. Dalla riflessione si va, cioè, alla denuncia: lo fa l’Australia (Buoyancy, di Rodd Rathjen), che mette in scena la schiavitù in Cambogia. Lo fa anche la Bielorussia, con Debut, un documentario ambientato in un carcere femminile, lo si trova anche in Alpha, di Nasiruddin Yousuff (Bangladesh), mentre il Canada sceglie la forma classica di una Antigone ambientata ai giorni nostri e pensata nell’universo dei migranti. Joy, austriaco, è centrato sulla vita di una prostituta nigeriana a Vienna e Las malas noches (Ecuador) racconta la discesa agli inferi di una sex-worker ecuadoriana che si prostituisce e per curare la figlia malata. Mali del mondo, oppressione, storie di disagio, di patriarcato (il brasiliano Invisible Life, di Karim Aïnouz, è una pietra miliare) di gravidanze mancate (il kosovaro Zana, di Antoneta Kastrati) di squallore (l’egiziano Poisonous Roses, di Ahmed Fawzi Saleh ) divisione familiare e discriminazione.
Notevole, in questo senso, è il ricorrere del tema dell’omofobia nelle pellicole sudamericane: il boliviano Tu me manques, il venezuelano Yo imposible, di Patricia Ortega, il peruviano Retablo, di Alvaro Delgado Aparicio (ambientato in un villaggio sperduto in alta montagna) e il panamense Everybody Changes, di Arturo Montenegro, in cui il segreto di una famiglia felice è il figlio transgender. I film africani, invece, puntano su storie di liberazione femminile: accade nel ghanese Azali, nel kenyano Subira di Ravneet Singh (Sippy) Chadhae nel nigeriano Lionheart (che è anche su Netflix), a sottolineare le pulsioni più dirompenti nella società.
Escono da questi schemi – ma indugiano sui propri problemi attuali – i film sui foreign fighter tunisini in Siria (Dear Son, Mohamed Ben Attia), o il thriller sul lavoro nero a Singapore (A Land Imagined, di Yeo Siew Hua), mentre i tedeschi raccontano le difficoltà di una bambina instabile con System Crasher, di Nora Fingscheidt. Rimane, in tutto questo, un po’ di poesia, come l’esplorazione della vita in Jakuzia fatta dal bulgaro Aka, che arriva a toccare, nel sottofondo, i temi ambientali del riscaldamento globale, o i campi lunghi dell’Islanda di Hlynur Pálmason nel suo A White, White Day, che faranno da sfondo a una scarica di violenza e gelosia, pssando per la Dominica di The Projectionist, a metà tra Nuovo Cinema Paradiso e Amarcord, fino al kirghizo Aurora, di Bekzat Pirmatov, ambientato in un sanatorio allucinato, che viene a simboleggiare l’intera nazione.
Per fortuna c’è spazio anche per qualche colore in più. Il Giappone presenta il film di animazione Weathering with You di Makoto Shinkai, ambientato in un’epoca di piogge continue e crescenti. E (è un caso?) anche la Cina passa al cartone animato, con Ne Zha, Yu Yang, che riprende temi storici risalendo alla dinastia Ming (la denuncia dell’attuale, forse, sarebbe azzardata – del resto anche Hong Kong punta sul poliziesco d’azione nel mondo della mafia locale). Il polpettone storico appare irrinunciabile, visto che lo presenta sia il Kazakistan, con una saga sulla sua fondazione, e l’Estonia, mentre l’Ucraina ne approfitta per raccontare, in Homeward di Nariman Aliev, il viaggio struggente di un padre che va in Crimea a seppellire il figlio, morto nei combattimenti recenti in Donbass. I russi, invece, tornano su Leningrado, raccontando una toccante storia dei mesi successivi all’assedio tedesco, con Beanpole di Kantemir Balagov. Scontri e recriminazioni nazionali, a parte l’eccezione ucraina, restano a bassa intensità.
Del resto perfino il medioriente (a parte Libano e Israele) sceglie tagli più leggeri per raccontare le tragedie quotidiane: Tutti pazzi a Tel Aviv è una pellicola lussemburghese, ma racconta la vita nell’area in modo più scanzonato del solito (tutto il contrario dell’Irlandese Gaza, documentario d’effetto), e così fa il palestinese It Must Be Heaven, Elia Suleiman, cui non sono mancate critiche per questo. Anche l’Iran si concentra su una storia di famiglie e test del dna, mentre – andando più a est, si vedel’India che canta il mondo dei rapper di successo venuti dal nulla (Gully Boy, di Zoya Akhtar), quasi a segnare l’ottimismo rampante del Paese (a scanso dei persistenti conflitti etnici e religiosi). In Europa, gli unici a inviare un film allegro sono stati gli svizzeri, con Wolkenbruch’s Wondrous Journey into the Arms of a Shiksa, cioè la storia di un ebreo ortodosso che si innamora di una ragazza non ebrea. Mentre la Grecia, che non ha dimenticato il suo recente passato combattivo, ha scelto un documentario di resistenza, dal titolo simpatico: When Tomatoes Met Wagner, di Marianna Economou, in cui viene narrata la storia di alcuni contadini che, per opporsi allo strapotere delle nazionali, scelgono di buttarsi sulla coltivazione biologica. Faranno ascoltare la muisca anche alle piante, per migliorarne la crescita. E sarà appunto quella di Wagner.