Il miracolo fallito. Perché il nuovo album di Kanye West non convince

Dopo una lunga attesa, è arrivato. Un disco di devozione religiosa (cristiana) che celebra la conversione dell’autore. Ma che ha il difetto di non trasmettere niente

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Se si potesse riassumere un album musicale in una parola, quella più esatta per Jesus is King, ultima opera del rapper americano Kanye West, sarebbe “imbarazzo”. Quello dell’ascoltatore, prima di tutto. Ma anche quello di alcuni recensori che, sconcertati dalla distanza tra aspettative e realtà, non sanno come nascondere la delusione. Si ammette che, sì, «non è il miracolo che si pensava», o che «non convince del tutto».

La verità è che il disco di West è imbarazzante. Raffazzonato, incompleto, disomogeneo. Quando lo si ascolta si capisce perché la sua uscita sia stata rimandata ben due volte (era prevista a settembre, poi il 23 ottobre, poi – alla fine – il 25). Meno chiaro il perché non sia stata rimandata anche una terza. O una quarta.

Se si prova a trovare qualcosa di buono, si perde tempo. Forse l’intenzione: Kanye West ha provato, stavolta in modo organico, a cantare il suo cammino di conversione al cristianesimo, con sperimentazioni gospel (inteso come forma di devozione artistica), collaborazioni di livello come Clipse, Ty Dolla Sign, Kenny G, i Sunday Service, cioè il suo gruppo gospel con cui da anni accompagna le funzioni domenicali (ripulendo i suoi vecchi brani), e un impegno encomiabile.

Si comincia con una introduttiva Every Hour, in cui segue linee di cori gospel, e qualcosa lascia anche sperare. Ma le aspettative cominciano a sgonfiarsi con Selah, che pure avrebbe una buona idea ritmica, fino a cadere, senza riprendersi, con Follow God. È solo la terza canzone su 11, ma può bastare, per un album che dura appena 27 minuti (e per fortuna).

Qui l’unico atto di fede è quello dell’ascoltatore, che cerca di cogliere nel disco un qualsiasi afflato spirituale, o addirittura religioso

In tanti hanno puntato il dito contro la fragilità dei testi, scoloriti e strampalati. Della sfera religiosa emerge la ripetizione, meccanica e ossessiva anche per un album di devozione, del nome di Gesù, mentre i riferimenti biblici appaiono annacquati, elementari, superficiali. Colpisce il paragone tra Dio e il fast food Chick-Fil-A (catena cristiana chiusa la domenica per motivi religiosi), che potrebbe essere geniale o terribile, e forse evocativo della realtà spoglia delle periferie americane, mentre fa sorridere l’idea in Everyhing we need di una Eva che fa un succo di mela – immagine seguita dalla domanda su Adamo: «Cosa avresti fatto al suo posto? Le avresti detto di riappenderla all’albero?».

Ma il problema vero – ebbene sì – è un altro: cioè che il disco non trasmette niente di niente. Sulla verità della conversione di Kanye West si va sulla fiducia: nessuno dubita dei suoi tormenti interiori, dovuti anche a problemi psichici, né del bisogno di ravvedersi dalle posizioni che, di tanto in tanto, esprime per necessità di telecamere (il sostegno a Donald Trump, o considerare una libera scelta la schiavitù degli afroamericani). Nessuno crede che il suo ruolo di «innovatore cristiano», che è convinto di essersi ritagliato, sia una posa. Ma in questo caso l’unico atto di fede evidente è quello dell’ascoltatore, che cerca di cogliere nel disco un qualsiasi afflato spirituale, o addirittura religioso. Le melodie sono algide, la gamma espressiva è sottozero, le invenzioni ridotte al minimo, per una sonorità diradata, asettica. Anche se in Water chiede di togliere «il cloro dalla conversazione», il risultato è un disco disinfettato, senza vita.

Certo, l’operazione di West è più ampia, come si fa notare da più parti. Insieme all’album c’è un cortometraggio di 35 minuti, girato nel Roden Crater, un cono vulcanico in cui opera l’artista James Turrell, che dagli anni ’70 lo sta trasformando in una immensa opera d’arte, pronta (forse) nel 2024. Poi c’è tutto il merchandising, che dal punto di vista pastorale (perché sì, c’è anche questo aspetto) ha una sua importanza. E anche le funzioni per il Sunday Service, di cui l’album punta a essere una forma di colonna sonora. Tutto vero, certo. Ma anche tutto inutile: a risollevare le sorti di un album fatto male non serve niente di speciale. Bastano canzoni fatte bene.