A qualcuno, oltreoceano, piace già tantissimo. Le lodi nei confronti di Martin Eden, il nuovo film di Pietro Marcello, appaiono sperticate, e “sperticate” è un eufemismo. Se persino due pesi massimi dela critica cinematografica americana come Anthony Oliver Scott e Manhola Dargis (entrambi in forza al New York Times) si sono sbilanciati (e “sbilanciati” è, anche qui, un eufemismo) in favore del film tratto dal libro di Jack London, vuol dire soltanto che siamo di fronte a qualcosa di importante.
Che il film abbia i suoi meriti è, ormai, un fatto assodato, almeno dalla critica italiana. Se non bastasse, ci sono fior di recensioni che lo confermano ed esaltano l’audacia (vincente) di trasferire l’ambientazione da San Francisco, come era nel libro, a Napoli. Del resto il regista ha fatto ciò che bisognerebbe sempre fare: ha parlato di ciò che conosce. Aggiungendo un tocco in più, cioè quella vaghezza temporale – tra il secondo dopoguerra e gli anni ’80 – intercalata da estratti di veri documenti video, reali e per questo motivo collocabili nel tempo. È una Napoli allungata nel tempo, verrebbe da dire, astratta dalla sua reale geografia per diventare luogo dell’anima – espressione abusata, certo – soprattutto perché l’anima è quella di un giovane poverissimo che lotta per diventare uno scrittore, e dopo mille fatiche ce la fa.
È lecito chiedersi, allora, se tra le ragioni di tanto amore ci sia proprio la città del film. Quella di Martin Eden è forse la stessa Napoli che, da qualche anno a questa parte, è diventata quasi un cult in terra americana? Il dubbio, pensando al successo dei romanzi (e del film) di Elena Ferrante, viene. Una città oleografica, dura ma innocente, vicina ma esotica, distante nel tempo e nello spazio (e, soprattutto, distante da quella che è Napoli davvero – se mai esiste una “Napoli davvero”). Un luogo di passioni, di scontri, ma anche di socialità spicce e umane. È – restando in ambito cinematografico recente – pur sempre la città della giovinezza perduta di Jep Gambardella che, tra le onde di una estate confusa, abbandona la propria innocenza.
Può darsi, ma sarebbe ingeneroso fermarsi qui. Martin Eden è sì un classico della letteratura americana. Ma è anche una sorta di autobiografia romanzata dell’autore. In terza persona, Jack London – bambino abbandonato dal padre, costretto a fare mille lavori, molti nemmeno puliti, e che incontra e ama a suo modo il socialismo– racconta la sua conquista personale della letteratura e, insieme a quella, di un posto nel mondo. È una delle tante variazioni del mito americano, ed è anche, nella volontà di London, la traduzione in romanzo delle teorie del darwinismo sociale di Herbert Spencer, che critica senza successo («Una delle ragioni per cui ho scritto questo romanzo è l’attacco alla persona dell’eroe» ma, riconosce, «nessuno dei miei critici se ne è accorto»). London critica cioè sia il mito (ai suoi albori), sia le teorie.
Ma è un fallimento: sia per London, che non solo non riesce a scalfire quella mitologia, ma che addirittura la rafforza, sia per il personaggio alter-ego Martin Eden, che nel successo e nella fama non trova altro che interrogativi e dubbi, fino al suicidio. È un conflitto che ritorna, per forza, nel film: sia nello sguardo allucinato di Luca Marinelli (meritatissimo Premio Volpe 2019 come miglior attore maschile) sia nell’atmosfera fredda che avvolge il finale.
È allora è lecito qui avanzare qualche ipotesi, per capire le ragioni dell’incantesimo provocato da Marcello sui critici americani. Perché mai, come dice Scott, se qualcuno gli chiedesse «una lista di 12 cose che ama di un film e trasformasse questa lista in un film, allora sarebbe Martin Eden»? Perché, è lecito supporre, questa America (sempre la prima a glorificare i propri miti e sempre la prima a criticarli) ritrova nel fallimento del protagonista qualcosa che la riguarda. Può permettersi di vedere, da una distanza di sicurezza oceanica, cioè nella Napoli immaginaria di Pietro Marcello, la propria sensazione di resa e disfatta. C’è l’ennesimo effetto della presidenza Trump, certo. E le crescenti simpatie socialiste (sempre più radicali, ecologiste, femministe). E c’è il disagio di un Paese – meglio: di milioni di individui, con le loro lotte, i loro disegni personali, i loro piccoli successi – che si accorgono all’improvviso di non essere più quello che credevano. E che forse (peggio ancora) non lo erano nemmeno prima.