I due capitaniCosì Renzi usa Di Maio per prosciugare il Pd

I due leader sono avversari, ma hanno un obiettivo comune: lasciare il cerino in mano ai Democratici e sottrargli i voti

Dopo essersi insultati amabilmente per anni, Luigi Di Maio e Matteo Renzi hanno fermato insieme l’aumento dell’Iva: poi, si telefonano, si scrivono sms, si scambiano complimenti a distanza, arrossiscono, dicono di capirsi. Marciano divisi. Però, colpiscono uniti – soprattutto, hanno colpito il PD, nella persona del suo ministro dell’economia, Roberto Gualtieri, e del capo della delegazione al governo, Dario Franceschini, che l’Iva l’avrebbero rimodulata volentieri.

L’unica cosa che non fanno è leggere le interviste in cui l’uno parla dell’altro: «Devo ammettere – ha detto al Foglio Renzi – che l’inizio del lavoro di Di Maio mi è sembrato molto saggio. Ha scelto una bella squadra, è circondato da persone di grande qualità, si è mosso senza sbagliare nulla». Ieri ad Agorà, Serena Bortone ha letto a Di Maio queste parole, domandandogli: «Chi le ha dette?». Lui ha risposto: «Non ne ho idea». Era l’unico, probabilmente.

E però, nonostante si scopra che la lettura dei giornali non sia la preghiera mattutina del ministro degli esteri, l’asse con Renzi si salda di fatto, perché – come si lascia sfuggire un deputato di Italia Viva, in confidenza – «il nemico del mio nemico è mio amico». Laddove per nemico si deve intendere non il nemico ufficiale, che «naturalmente è e rimane la Lega», ma il nemico della porta accanto, cioè il Partito democratico: «D’altronde – dice –, noi è lì che una parte dei voti dobbiamo andarceli a prendere».

Così Luigi Di Maio e Matteo Renzi ritrovano un rapporto, entrambi animati dal desiderio di fare con il neo governo dell’Italia ciò che l’operazione dei capitani coraggiosi fece con l’amministrazione di Alitalia: cioè, scorporare in due l’esecutivo di Giuseppe Conte, istituendo una bad company amministrata dal Partito Democratico e dal Presidente “Giuseppi”, alla quale addebitare tutte le perdite sul campo – gli insuccessi, i cattivi propositi, le rogne dettate dalle necessità di bilancio –; e una good company che invece incassi le vittorie, i passi avanti, come è stato per il no all’aumento dell’Iva, raccontato agli italiani come un attentato sventato alla loro incolumità fiscale. La tecnica è quella affinata dal segretario della Lega Matteo Salvini: conquistare consensi divorando quelli del proprio alleato. Il metodo rimane la guerriglia – ma stavolta a bassa intensità, per segnare la svolta dal passato. La differenza è che allora il Capitano era uno solo. Ora, sono due.

Renzi e Di Maio si sono spesso annusati, anche quando sono stati costretti a odiarsi in pubblico

Renzi e Di Maio si sono spesso annusati, anche quando sono stati costretti a odiarsi in pubblico. Durante la discussione sulla fiducia, nel febbraio 2014, Matteo Renzi scrisse un bigliettino a Luigi Di Maio che iniziava così: «Scusa l’ingenuità, caro Luigi, ma voi fate sempre così? Io mi ero fatto l’idea che su alcuni temi potessimo davvero confrontarci». Il caro Luigi sottintendeva che le formalità tra i due erano già state riposte in soffitta da tempo. Se non altro, perché farsi un’idea di un confronto è possibile se questo confronto è stato preso in considerazione e discusso dalle parti. Cosa che poi è avvenuta davvero, quattro mesi più tardi, nella piccola aula della commissione esteri della Camera, nel più dimenticato dei confronti streaming, il quarto, quello sulla legge elettorale. C’erano Renzi, Speranza, Serracchiani e Moretti da una parte. Di Maio, Toninelli, Buccarella, Brescia dall’altra. «Ci diamo del lei o del tu» esordì Renzi. «Come vuole lei, presidente», rispose Di Maio.

Oggi Matteo e Luigi sono seduti al tavolo del governo. Renzi non è il presidente del Consiglio, né il segretario del partito che ha appena preso il 40 per cento alle elezioni europee. È il fondatore di un partito che i sondaggi danno intorno al 5 per cento. Luigi Di Maio è il capo politico di un movimento che, dal 4 marzo 2018 al maggio del 2019, ha perso il 15 per cento dei voti. Entrambi devono guadagnare consensi. È una delle ragioni per cui hanno fatto il governo: darsi il tempo per farlo. Solo che la forza parlamentare e ministeriale del Movimento 5 stelle lega molto di più Di Maio al governo di quanto non faccia con Renzi. Il quale è più libero di esibire la propria sintonia con i 5 stelle («sono maturati», ha detto) per mettere sotto pressione il Partito democratico e lanciare l’Opa sui suoi elettori, quelli che una volta lo avevano scelto come segretario del partito da cui è appena uscito. Siamo di fronte a un caso i cui scenari Giulio Andreotti avrebbe potuto sintetizzare così: «Il partitino logora chi non ce l’ha».

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