Max Martin, l’uomo che ha inventato il suono del nostro tempo

Il paroliere e produttore svedese è l’autore che si nasconde, quasi in senso letterale, dietro ai successi di popstar di fama planetaria: le hit di Britney Spears, Katy Perry, Ariana Grande, Taylor Swift (per fare un esempio) sono opera sua

KEVORK DJANSEZIAN / GETTY IMAGES NORTH AMERICA / AFP

A lui piace stare nelle retrovie. In disparte, quasi di nascosto. Il suo ambiente ideale è uno studio di registrazione in qualche seminterrato. Non è timido ma pochi, fuori dal suo settore, conoscono il suo nome, cioè Max Martin (ma registrato all’anagrafe di Stoccolma come Karl Martin Sandberg). E chi lo vede per la prima volta non può nemmeno immaginare che quell’uomo biondo, tranquillo e serissimo sia il più grande autore di canzoni pop degli ultimi 20 anni. Non si esagera: la frase “Hit me baby one more time”, cantata da Britney Spears nel 1998, è opera sua. Così come il testo di “Oops I did it again”, e quello di “Everybody” dei Backstreet Boys (Backstreet is back, alright?! lo riconoscono quasi tutte le ragazze – cresciute – di tutto il mondo).

E ancora: canzoni di Celine Dion, Taylor Swift, un buon numero di quelle di Ariana Grande, decine di quelle per Katy Perry (“Hey hey hey”, ma tra le altre anche “California Gurls”), Pink, James Blunt, Christina Aguilera, Lana del Rey, Leona Lewis, Demi Lovato, Avril Lavigne, Nicky Minaj, will.i.am. Perfino Pitbull. Tutta farina del suo sacco, e l’elenco è molto più lungo.

Per più di 20 anni i suoi testi hanno dominato le classifiche americane (e non solo): 73 canzoni sono apparse nella top ten Usa, 22 hanno dominato il podio. Meglio di lui, in questo senso, hanno fatto solo Paul McCartney (32) e John Lennon (26). La differenza è che i primi due sono celebri e Max Martin non lo conosce nessuno. Eppure gli è capitata una nomination agli Oscar, cinque Grammys e un premio Polar Music (lo ha vinto anche Bob Dylan, per capirsi).

Il Guardian, pur di parlarne e incontrarlo (interviste non ne concede mai, o quasi), lo celebra per uno spettacolo teatrale che va in scena a Londra, ispirato al Romeo e Giulietta di William Shakespeare (ma che finisce bene) e che ha per colonna sonora alcune delle canzoni scritte da lui – più o meno una specie di Mamma Mia fatto con classici della musica pop degli ultimi anni.

È cresciuto ascoltando le canzoni degli Abba, di Elton John e dei Beatles. «Non capivo niente di quello che dicevano». Però gli piaceva il suono delle parole: lo emozionava

È solo l’ultima impresa di un musicista/paroliere atipico, le cui opere sono celebri ma che rifiuta la fama. «È una cosa per cui noi esseri umani non siamo predisposti, non fa parte del nostro dna», spiega. Lui, lavorando a stretto contatto con star mondiali, l’ha vista all’opera, rapace e improvvisa: «Noi dobbiamo essere grati agli artisti», dice, «è troppo semplice dire che la celebrità li fa diventare viziati, o che cominciano a comportarsi da divi. Sono loro quelli che si buttano nel mondo, girano di città in città e si caricano di fama per il nostro divertimento. E noi, poi, vediamo le loro vite crollare a pezzi». Meglio evitare questa dinamica. «Soprattutto adesso, perché i social media hanno portato la celebrità a un livello ancora più alto».

La sua riservatezza contrasterà anche con il mondo, glamour e pieno di flash, in cui lavora, ma si può spiegare con le sue origini svedesi. Nato nel 1971 nei dintorni di Stoccolma, è cresciuto ascoltando le canzoni degli Abba, di Elton John e dei Beatles. «Non capivo niente di quello che dicevano». Però gli piaceva il suono delle parole: lo emozionava. A scuola impara a suonare il corno francese, conosce e frequenta il dj e produttore svedese Dag Krister Volle, in arte PoP, che ne intuisce il talento per il genere leggero e lo assume alla Cherion, una azienda che è anche una piccola potenza. Lì viene ribattezzato dallo stesso PoP Max Martin, entra in contatto con grandi star mondiali, come gli Ace of Base, i Backstreet Boys e i Five e comincia la sua carriera ai massimi livelli. Il successo (quello vero, planetario) arriverà soltanto nel 1998 (Volle era appena morto) proprio con Britney Spears: la sua versione di Baby one more time, canzone rimasta nel cassetto per un anno, diventa una hit.

A guardare i suoi testi, si vede che lo stile-Max Martin si distingue per la ricerca continua della semplicità, per la ripetizione, per il rifiuto di qualsiasi complessità. Il concetto, quando è troppo ricco (si fa per dire) deve essere spezzettato in più versi, distribuito su più note, ripetuto o alla lettera o con una variazione dello stesso tema. Deve arrivare chiaro, ma non esaurire l’attenzione dell’ascoltatore. Non deve mai impegnare la mente ma, al contrario, intrattenerla: seguendo il ritmo della musica e non ostacolandolo.

«I stay out too late, got nothin’ in my brain», ad esempio, è il primo verso di Shake it Off di Taylor Swift (sempre opera di Martin, come è ovvio) e già fornisce due informazioni decisive sul personaggio (esce tardi, è un’oca), completate da «That’s what people say, mmm hmm, that’s what people say, mmm hmm», che ribaltano la prospettiva (non è vero, è solo quello che dicono). Visto che è un concetto importante – e suona bene – viene ribadito, con una ripetizione. È quasi una matematica melodica: l’ascoltatore, in pochi istanti, ha afferrato il senso di tutto il brano, che sarà poi ripetuto con variazioni per tutto il resto della canzone.

Sembra semplice, non lo è. Anche perché la costruzione di una hit a volte richiede di sorprendere, sia con il ritmo che con costruzioni grammaticali insolite. In questo senso essere di madrelingua svedese e scrivere in inglese è, per Martin, un vantaggio: può, in nome della musicalità, prendersi a cuor leggero molte licenze, più o meno poetiche. «Ed è lì che capisci di aver lavorato bene: quando la gente si chiede: “Cosa avrà voluto dire?” e ne discute per giorni sui forum. In quel caso si ha davvero preso la strada giusta».

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