Non chiederanno scusa. Lo ha detto Adam Silver, il commissioner della Nba (National Basket Association) ed è una posizione importantei: si riferisce al caso delle parole di solidarietà espresse da Daryl Morey, general manager degli Houston Rockets, nei confronti dei movimenti di protesta a Hong Kong, che hanno suscitato una reazione durissima da parte cinese. Un grosso pasticcio, nato da un semplice tweet, che mette in discussione soldi, sponsor e finanziamenti. Ma che ha anche contribuito ad aprire gli occhi all’opinione pubblica americana sull’arroganza cinese in fatto di libertà d’espressione, anche di quella di chi vive a 12mila chilometri di distanza.
Il tweet in questione, pubblicato da Morey nella sera di venerdì 4 ottobre (e poco dopo cancellato) mostrava una immagine delle proteste di Hong Kong accompagnata dalla scritta: “Lotta per la libertà. Siamo con Hong Kong”. Tanto è bastato perché la Li Ning, colosso della produzione di scarpe sportive, annunciasse di interrompere i propri rapporti con i Rockets. E lo stesso ha fatto la Shanghai Pudong Development Bank, seguita – mossa ancora più spaventosa – dalla Chinese Basketball Association. La società Tencent Holdings, gigante cinese del settore dell’intrattenimento e dei media, dopo avere ottenuto (a peso d’oro) il rinnovo dell’accordo sui diritti della NBA, ha deciso di sospendere la trasmissione delle partite degli Houston Rockets, obbligandola a perdere una fetta di mercato di 500 milioni di persone. Un danno economico e di immagine tremendo, aggravato dal fatto che i Rockets in Cina erano molto popolari proprio perché il celebre cestista Yao Ming (ora a capo della CBA) aveva giocato per anni con loro.
Subito sono cominciate le retromarce. Sempre su Twitter, Il presidente della squadra, Tilman Ferlitta, ha rinnegato l’uscita di Morey: non rappresenta in nessun modo la posizione della società. I Rockets, ha spiegato subito dopo a Espn, «Non hanno posizioni politiche. Siamo qui per giocare a basket e non per offendere qualcuno». Poco dopo sono arrivate le scuse dello stesso Morey, il quale, con il capo cosparso di cenere, ha precisato che non voleva offendere nessuno, anzi. Che le opinioni espresse fossero soltanto sue e che, tutto sommato, nemmeno così ben ponderate. «Stavo dando voce a un pensiero, basandomi su una interpretazione, una cosa complicata. Da quando ho scritto il tweet ho avuto molte opportunità per sentire e considerare idee differenti».
È bastato? Quasi. La Nba, sulle prime, ha mantenuto un approccio diplomatico. Ha espresso rammarico per l’incidente causato dalle parole del manager dei Rockets, ha ripetuto che non si trattava di una posizione ufficiale della società, ha ricordato il loro profondo rispetto per la storia e la cultura cinese. Lo sport, hanno aggiunto, «deve funzionare come ponte tra i popoli». Sì, ma la libertà di pensiero dove finisce? Come ha detto Howard Beck, firma di punta del giornalismo sportivo, «Capisco che ci siano in gioco interessi economici e finanziari, ma Morey ha soltato parteggiato a favore del rispetto dei diritti umani, cioè quelli che la Nba ha fatto suoi da tempo e che a quanto pare dice di difendere. Se la lega permette che un dirigente venga licenziato per aver fatto questa cosa, rovina tutto».
Una critica feroce, che ha fatto da preludio alla contro-retromarcia della Nba. Puntuali, allora, sono arrivate le parole di Adam Silver, che ha parlato da Saitama, in Giappone, in occasione del match tra Rockets e Toronto Raptors: «I membri della Nba restano liberi di esprimere le loro opinioni, e la lega li sostiene in questo». Non solo: «Ci sono valori che fanno parte della Nba fin dagli albori, e tra questi consideriamo la libertà di espressione». Poi passa a difendere Morey: «Ha il nostro sostegno in quanto deve essere libero di esprimere le sue idee». E ribadire – ed è una lezione anche per chi non si occupa di sport – che «ci sono questioni complesse, che non si prestano a essere trattate sui social media».
Come è ovvio le reazioni cinesi sono proseguite: la televisione cinese CCTV ha dichiarato di aver sospeso la programmazione delle prossime partite amichevoli tra Los Angeles Lakers e Nets. «Contestiamo la pretesa di Silver di sostenere il diritto di parola di Morey», rispondono, perché a loro avviso «Qualsiasi osservazione che metta in discussione la sovranità nazionale e la stabilità sociale non appartenga alla liberta di espressione».
Lo scontro continua. Ma con alcune evoluzioni importanti: la prima, come viene fatto notare qui, è che la Cina non si fa scrupolo di utilizzare il suo peso economico per condizionare il comportamento di aziende e organizzazioni americane, arrivando anche a stabilire cosa sia leggittimo dire e cosa non lo sia. La cosa stupefacente, in questo caso, è che lo fa in modo aperto e plateale.
La seconda è che, ormai, per difendere i diritti umani essenziali gli americani devono affidarsi agli sportivi. Il gigante della Nba, nonostante i primi tentennamenti, è l’unico rimasto a sventolare la bandiera delle libertà, mettendola sopra ai soldi e agli interessi finanziari. Il tutto a fronte di un presidente che ha appena abbandonato al proprio destino (o meglio: al destino che sceglierà la Turchia) migliaia di curdi, alleati in passato preziosissimi nella lotta contro lo Stato islamico e ora alla stregua di carne da cannone. Disposable. Il tutto in nome di un ritiro delle truppe che, nelle intenzioni di Trump, dovrebbe giovare alla sua campagna elettorale (difficile).
La terza, infine, è che la reazione di Pechino e delle sue istituzioni, con ogni probabilità non andrà a intaccare l’amore per il basket made in Usa di 800 milioni di cinesi. Come scrive Adam Minter su Bloomberg, «la pallacanestro è uno degli sport che hanno mostrato la maggior resilienza in Cina». Arrivato intorno al 1890, si è diffuso negli anni fino a superare il nuoto, il ping pong e perfino il calcio. È, a quanto pare, lo sport preferito di Xi Jinping. «Se il governo decide di non trasmettere più le partite della Nba, non vuol dire che gli appassionati si metteranno a seguire il campionato cinese. Soltanto, troveranno i mezzi tecnici per aggirare le limitazioni e i blocchi». Cosa che, del resto, fanno da anni per quanto riguarda internet e social network. Loro hanno imparato a sopravvivere, in qualche modo, alla censura di Pechino. Noi del mondo occidentale, anche grazie alla Nba, non abbiamo avuto questa necessità. Almeno per il momento.