Tecnologia e manipolazioneTutti i trucchi per non farsi condizionare dalle tecnologie, suggeriti da uno che le ha create esattamente per influenzare le persone

Secondo Nir Eyal, esperto di tecniche di behavioural design, i meccanismi utilizzati dagli strumenti tecnologici per catturare l’attenzione delle persone non sono invincibili. Per liberarsene serve prima di tutto buona volontà. E poi la guida giusta (guarda caso, è il suo libro)

Laurent EMMANUEL / AFP

Nel suo primo libro, Hooked: How to Build Habit-Forming Products, il guru israelo-americano del tech Nir Eyal ha insegnato agli sviluppatori della Silicon Valley come creare tecnologie in grado di inluenzare le abitudini delle persone. Dopo cinque anni ne ha scritto un altro, Indistractable: How to Control Your Attention and Choose Your Life, stavolta per spiegare agli utenti i trucchi migliori per non farsi condizionare da quelle stesse tecnologie.

È una parabola di colpa ed espiazione? Un esempio di ravvedimento operoso? Non proprio. Eyal, esperto di psicologia, tecnologia e business, insider del mondo degli sviluppatori e maestro di behavioural design – cioè quell’insieme di tecniche che, dosando i meccanismi di ricompensa e desiderio del cervello, modificano i comportamenti delle persone – resta sempre un ottimista del tech. Anzi, un suo strenuo difensore.

Secondo lui i prodotti tecnologici di oggi «non creano affatto dipendenza». È una tesi che non esita a definire «ridicola». Ancora più sbagliato, poi, è accusarli di «manipolazione», o di «manomissione della mente»: si tratta di una favola autoconsolatoria, chiamata a giustificare l’incapacità delle persone di controllare i propri impulsi e imbrigliare le fonti di distrazione. Se perdi tempo su Facebook e Instagram, insomma, è soltanto colpa tua.

Una posizione contraddittoria? Sì, ma – assicura – solo «in apparenza». Il punto principale del suo discorso, che deriva dalla sua esperienza di addetto ai lavori, è che le tecniche di programmazione comportamentale (behavioural design) adottate dal Big Tech funzionano, certo: ma non così tanto. «Non siamo marionette appese a un filo», argomenta in un confronto con Ezra Klein, giornalista fondatore del sito americano Vox e del tutto convinto del pericolo persuasivo della tecnologia. «Non è possibile manipolare le persone per farle fare tutto ciò che si vuole. Tutti sono in grado di capire se un prodotto, una app o un programma, è dannoso nei loro confronti». E in quel momento, «tranne una piccola percentuale composta da bambini e da persone dipendenti in senso psicologico, tutti cominciano a moderare il loro utilizzo di questi strumenti o perfino ad abbandonarlo».

La questione si gioca anche sul piano terminologico. Eyal rifiuta in modo categorico la parola «dipendenza», che rimanda a un ambito clinico preciso, e preferisce «abuso» (in inglese: overuse), che ha sia il vantaggio di definire la relazione disfunzionale tra utente e strumento tecnologico dal punto di vista dell’utente (cioè in modo implicito scaricandone su di lui la responsabilità), sia quello di sfuggire alla lettura «disfattista e disperata» che pone il fruitore del tech una condizione di bisogno patologico e incurabile. Chi vuole smettere, assicura, lo può fare. Ad esempio – e guarda caso – comprando il suo ultimo libro.

Nello snodarsi del suo ragionamento, sempre a rischio incoerenza, si riflettono influenze culturali, ambientali e biografiche dverse. C’è l’esigenza commerciale, prima di tutto. Nel 2014 – cioè in piena celebrazione delle meraviglie del tech – Eyal pubblica una sorta di Bibbia per sviluppatori. Chi voleva apprendere i trucchi usati da Facebook e Youtube per catturare l’attenzione degli utenti e modificare i loro comportamenti – così recitava il leitmotiv – doveva pescare da lì. «Era un modo per rendere più democratiche queste tecniche». E, visto che spingere una persona a fare qualcosa non è «sbagliato in sé, ma dipende dal comportamento che si intende indurre», non si era fatto (né si fa ora) particolari scrupoli. Uno degli esempi considerati, giusto per zittire i critici, era appunto la app della Bibbia: uno strumento utile per il fedele che vuole leggere e meditare sul testo sacro. Invogliare una persona a pregare può forse essere una spinta negativa?

Poi, un giorno, viene l’illuminazione. Durante un pomeriggio con sua figlia, si accorge che non riesce a prestarle la dovuta attenzione. Formula domande, ma non fa caso alle risposte: mentre lei parla lui è già connesso allo smartphone. E così il suo quality time (nozione anglosassone che definisce il tempo passato con le persone care a fare cose che piacciono) viene divorato dagli strumenti tecnologici. Nemmeno lui – che pure conosce le tecniche messe in atto – riesce a resistere. Un fatto senza dubbio grave ma – conclude, a sorpresa – non incurabile. «Chi vuole smettere di abusare della tecnologia può farlo, se vuole». Non si tratta di una condizione inesorabile, o di una schiavitù invincibile. Dire che le tecnologie riescono a manipolarci senza rimedio è «disfattismo», anche perché continuare a ripeterlo scoraggia le persone e assegna all’industria tecnologica un potere maggiore di quello che ha.

A dimostrazione della sua tesi, da obeso è diventato magro. Ha ridotto il suo tempo sui social e sulle app. Ha cambiato la sua vita mettendo in pratica – anche stavolta – delle tecniche di controllo del comportamento, ma in senso opposto. «Per diminuire l’utilizzo di Twitter si può utilizzare una app che lo blocca per alcune ore. Per non essere disturbati dalle notifiche, basta toglierle. Per concentrarsi sul lavoro in ambienti open space, una buona idea è fare un cartello con scritto “Per favore, in questo momento non posso essere distratto”».

Insomma: buona volontà e i consigli giusti (che, non a caso, si possono comprare da lui) sono quello che ci vuole. Ma allora davvero è tutto così semplice? Davvero parlare di manipolazione – se ne è vista persino una eco anche nell’ultimo episodio di Black Mirror – è una esagerazione? E davvero per spezzare le catene delle tecniche dei sistemi di ricompensa cerebrale basta così poco? Il fatto che Eyal sia parte del sistema che ha creato (lo dice lui stesso: è un insider) non aiuta i diffidenti. E nemmeno lo agevola notare che riesca anche a guadagnarci con le vendite dei suoi due libri, causa e rimedio dello stesso fenomeno. Resta insomma il dibattito e, volendo, la provocazione. Ma anche, seppur declinata in forma inedita, la battaglia per riconquistare il controllo sulla propria attenzione.

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