L’Ocse ha un piano per tassare i giganti della Rete e non ha paura di presentarlo. Il segretario dell’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, Angel Gurria, ha esposto la proposta che sarà discussa tra una settimana a Washington, durante il G20 dei ministri delle Finanze in programma il 17 e 18 ottobre. Un progetto ambizioso e globale che punta a terminare una volta per tutte l’età dell’oro delle multinazionali del Web che per almeno due decenni hanno ottenuto smisurati profitti in tutto il mondo pagando tasse da prefisso telefonico. Tutto si basa su due principi. Primo: le società digitali devono pagare le tasse dovunque generano profitti e «abbiano significativi legami diretti con i consumatori». Tradotto, i vari Amazon, Google, Facebook e Netflix non potranno più pagare le loro tasse solo dove hanno il quartier generale, non a caso spesso in uno Stato con una tassazione favorevole. L’obiettivo è superare vecchi schemi di tassazione globale fermi agli anni 20 e distribuire alcuni dei profitti e parte dei diritti di imposizione in tutti i Paesi coinvolti. «Nell’era digitale, l’attribuzione dei diritti fiscali non può più essere esclusivamente circoscritto in riferimento alla presenza fisica». In ogni Stato dove hanno affari, i giganti del Web dovranno pagare le tasse, anche se non c’è una presenza fisica. Sembra una proposta di buon senso e forse un po’ tardiva in base ai tempi che corrono, e invece è la sintesi di 3 progetti provenienti da un gruppo di 134 Paesi che ha richiesto mesi di negoziazione.
Sulla carta, la proposta dell’Ocse potrebbe piacere a tutti, anche a India, Stati Uniti e Regno Unito che finora hanno avuto approcci diversi al tema. E forse è proprio questo il problema. Il rischio è che una norma globale sia blanda e poco efficace per definizione. Sul principio sono tutti d’accordo, ma chi deciderà quanto dei profitti delle multinazionali andrà agli Stati dove si vendono i prodotti e quanto a dove ha la sede? Questo è il tema cruciale per gli Stati dell’Unione europea. Per evitare che ognuno faccia per sé bisogna rispettare il secondo principio del piano Ocse: «l’approccio deve essere unitario», tutti per uno, uno per tutti. Dalla Cina agli Stati Uniti fino all’Unione europea. «In un ambiente caratterizzato dalla minaccia di ulteriori misure unilaterali per affrontare questi problemi, è essenziale andare avanti per costruire una soluzione globale a lungo termine attraverso il G20». Tradotto, almeno sulle cose serie, non facciamo i sovranisti. Perché se ogni Paese agirà in maniera unilaterale applicando tasse diverse a multinazionali con fatturati grandi come Pil di uno medio Stato, gli effetti rischiano di essere negativi. Soprattutto in un’economia globale resa più fragile dalla politica dei dazi.
Il 1 gennaio 2020 dovrebbe entrare in vigore in Italia la digital tax: una tassa del 3% sui ricavi delle società digitali che hanno entrate in Italia maggiori di 5,5, milioni di euro e un fatturato globale sopra i 750 milioni
Ad ascoltare il monito dovrebbe proprio essere l’Italia. Perché il governo M5S-PD nato per far uscire l’Italia dalla politica isolazionista di Salvini, si comporta invece come il peggiore dei sovranisti. Il 1 gennaio 2020 dovrebbe entrare in vigore la digital tax: una tassa del 3% sui ricavi delle società digitali che hanno entrate in Italia maggiori di 5,5 milioni di euro e un fatturato globale sopra i 750 milioni. La web tax esiste da un anno ma non erano mai stati realizzati i decreti attuativi. L’accelerazione del governo non è fatta tanto per egoismo nazionale, quanto per necessità: servono tanti miliardi – sporchi, maledetti e subito – per far quadrare i conti nella legge di Bilancio. Per ora nella nota di aggiornamento al documento di economia e finanza sono segnati 7,2 miliardi di coperture per finanziare le proposte della legge di Bilancio da recuperare grazie alla lotta all’evasione fiscale. Non basterà una lotteria degli scontrini per trovare quella cifra. Purtroppo anche Francia, Spagna e Austria hanno approvato una loro digital tax, basandosi sulla bozza che qualche mese fa aveva messo d’accordo 23 stati Ue su 28 ma non era mai stata approvata in modo definitivo.
La speranza del governo italiano è che si possa trovare un accordo almeno europeo se non ci sarà quello globale per armonizzare le varie web tax approvate dagli Stati più impazienti ed evitare zone più vantaggiose rispetto alle altre. «L’Italia ha appena chiesto alla Commissione europea di presentare una proposta di direttiva sulla tassazione minima effettiva nel mercato interno», ha annunciato martedì il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, durante l’audizione presso le commissioni Finanze riunite di Camera e Senato. I profitti dei colossi del Web, «devono essere tassati lì dove sono realizzati».
Se il mondo non si muoverà, l’Unione europea continuerà a essere l’unica fortezza a proteggere i diritti dei consumatori. Lo ha chiarito anche il commissario all’Economia Paolo Gentiloni durante la sua audizione al Parlamento europeo del 3 ottobre. «Se per la fine del 2020 non si arriverà a una soluzione globale per una tassazione digitale equa, l’Ue agirà in via autonoma». Non sarà facile per Gentiloni convincere gli Stati che finora non hanno accettato una web tax europea, come Svezia, Estonia e soprattutto Irlanda che ospita le sedi europee di Google, Facebook e Twitter, offrendo una tassazione agevolata. Per questo il commissario all’Economia ha promesso che cercherà di togliere la regola dell’unanimità per passare al sistema di votazione a maggioranza qualificata quando si discuterà di tassazione web. Ma come insegna l’accordo preso a maggioranza qualificata sulla distribuzione dei migranti, ogni volta in cui si è forzata la mano, gli Stati esclusi non hanno rispettato la volontà della maggioranza. Sarà dura convincerli. In confronto il proposito dell’Ocse sembra un’impresa meno titanica.