«Un avventuriero, anzi un avventurista, uno spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto, un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido, un bandito politico di alto livello…». Epiteti rivolti da un qualunque esponente PD ad un qualunque altro esponente Cinque Stelle (o viceversa)? No: è solo un breve passaggio del severissimo ritratto che di Bettino Craxi fece nel 1978 Tonino Tatò ad uso di Enrico Berlinguer, di cui per molto tempo fu consigliere e portavoce (lo si ritrova insieme a molti altri utilissimi materiali in “Caro Berlinguer”, Einaudi 2003). Ritratto severo ma certamente ben rappresentativo delle opinioni che in quegli anni – e più ancora negli anni Ottanta – corsero reciprocamente tra i dirigenti del PCI e i dirigenti del PSI. Due partiti legati per decenni da un doppio filo di collaborazione (locale) e competizione (nazionale), per lunghi tratti segnato anche da un’ostilità viscerale – quasi antropologica – e alla fine incapace di trasformarsi in quell’alleanza strategica che pure era stata vagheggiata.
È ovviamente arbitrario mettere a confronto la relazione che si svolse tra PCI e PSI, in un’Italia ormai lontanissima dalla nostra, con quella che domani potrebbe svolgersi tra PD e Cinque Stelle. Eppure quei toni così perentori e privi di sfumature ci suggeriscono che anche laddove vi sia distanza, conflitto e persino disprezzo vi possa essere una collaborazione capace di diventare alleanza. Il punto è naturalmente quello della direzione da percorrere («per fare cosa?») ma anche quello delle idee di chi controlla il volante. Perché non c’è dubbio che oggi, nel mondo reale del 2019 e non in quello che ci piacerebbe abitare, le varianti che potrebbe assumere quest’alleanza siano numerose e gli esiti possibili molto distanti gli uni dagli altri.
Un governo necessario, ma che da solo difficilmente darà gambe all’ambizione di creare un’alleanza che si candidi davanti agli elettori a guidare l’Italia per la prossima legislatura
Temo che non sia sufficiente fare riferimento all’immagine dei popoli che si ritrovano, come fa brillantemente Goffredo Bettini quando scrive che il rapporto con i Cinque Stelle «servirà a riprendere contatto con una parte di popolo che abbiamo perso». La mistica popolare si presta da sempre ad essere tirata da qualsiasi parte, così com’è difficile negare (anche sulla base delle analisi sui flussi elettorali) che una parte del “popolo PD” sia andato anche in direzione della Lega, sebbene in misura minore del travaso avvenuto in direzione del Movimento Cinque Stelle. Un’immagine da cui mi è difficile liberarmi, ad esempio, è legata inevitabilmente a Livorno: nei quartieri detti “Corea” e “Shanghai” (o persino “Sciangai”, mai Shangay: denominazioni di origine solidamente popolare, poco legate alle fascinazioni dell’Estremo Oriente) se un tempo il PCI raccoglieva le classiche percentuali bulgare oggi la Lega di Salvini conquista fette consistenti di votanti e nel 2018 ha raggiunto il primo posto in più di una sezione elettorale. Ingiusto etichettare il popolo di Corea e Shanghai come una massa distante e irrecuperabile di sovranisti, impossibile negare che il PD debba concentrarsi anche nel “riprendere contatto” con quel popolo (che abita certamente molte altre città italiane).
A meno di non pensare che il confronto si svolga tra segmenti di elettorato impermeabili l’uno all’altro, tendenzialmente immobili e immutabili come sono i confini tribali. Un’idea ovviamente legittima, ma subalterna ad un’ambizione minoritaria per il futuro del Partito Democratico: quella secondo la quale l’orizzonte del PD non può che esaurirsi nel dare rappresentanza al “popolo di sinistra”, qualunque cosa sia (e ammesso che vi sia). Magari unificando i suoi segmenti dispersi, ma in fin dei conti rassegnandosi a dar voce ad una parte inevitabilmente non maggioritaria del paese e rinunciando dunque all’aspirazione di esercitare la più classica delle egemonie. E se il richiamo al “popolo” non è sufficiente, lo è altrettanto la sacrosanta urgenza di far funzionare bene il governo a cui abbiamo dato vita da poche settimane. Un governo necessario, ma che da solo difficilmente darà gambe all’ambizione di creare un’alleanza che si candidi davanti agli elettori a guidare l’Italia per la prossima legislatura.
Le alleanze più solide non nascono da frettolosi matrimoni riparatori, ma da un confronto che muova da posizioni anche distanti per poi eventualmente trovare terreni comuni di convergenza e compromesso
Il nodo allora torna ad essere – banalmente ma inevitabilmente – quello del “timone politico” che si è in grado di dare all’ipotesi di un’alleanza tra PD e Cinque Stelle. Un timone che sbaglieremmo a immaginare destinato per via naturale al Partito Democratico. L’esperienza di questi anni ci racconta infatti di una grande elasticità programmatica dei Cinque Stelle, quale quella che ad esempio è venuta nel passaggio dal Conte1 al Conte2 sul tema strategico dell’Europa. Una elasticità rivendicata persino con orgoglio, come garanzia di “centralità in qualsiasi futuro governo” (e pazienza se quella rivendicazione ricorda a molti di noi lo spregiudicato opportunismo dei “due forni” della Prima Repubblica). Ma il punto è che quella elasticità (o quella spregiudicatezza) garantisce ai Cinque Stelle un vantaggio competitivo non irrilevante nella corsa al controllo politico dell’alleanza. Perché il PD non sarà mai in grado (per nostra fortuna) di capovolgere nel giro di pochi giorni la propria posizione sull’Europa, sulle politiche fiscali o sul lavoro. E rischierà per il peso della propria virtù di cedere ad una divisione del lavoro dove ai Cinque Stelle sarà delegata la parte del magnifico condottiero, tenendo per sé l’onere assai poco redditizio della fatica e della responsabilità “governista”.
L’unica strada per evitare quello che Tommaso Nannicini ha definito il rischio di «un polo in cui ci siano le idee dei Cinque Stelle e le correnti del PD» resta quella – forse antica ma sempre efficace – di partire dalla propria agenda per testare la possibilità di un’alleanza. L’agenda riformista che ha alimentato i governi a guida PD, nella sua ispirazione ideale e dunque adattabile alle trasformazioni dell’Italia del 2020 piuttosto che in quelle che sono state le sue applicazioni strettamente legislative. Si dirà forse che quell’agenda è stata violentemente osteggiata dal Movimento Cinque Stelle? Vero. Ma è altrettanto vero che l’elasticità Cinque Stelle non può funzionare solo in una direzione. Così com’è vero che le alleanze più solide non nascono da frettolosi matrimoni riparatori, ma da un confronto che muova da posizioni anche distanti per poi eventualmente trovare terreni comuni di convergenza e compromesso. Ed è su questo che si misurerà la capacità di un gruppo dirigente nel dare senso e futuro al PD di domani.