Instagram ha fatto la fine del Cinque Stelle. Dalla disintermediazione è passato alla mediazione. Dalla disruption alla sfiducia costruttiva. Dalla trasparenza all’opacità. Dalla democrazia diretta a quella rappresentativa. Dal consenso all’espressione. Dal basso all’alto (della cattedra). Le parabole di trasformazione/normalizzazione dell’uno, il social network, e dell’altro, il movimento anzi no il partito, procedono impressionantemente in parallelo. Coincidono i tempi, le traiettorie, gli obiettivi, tutto quanto.
Instagram ha tolto i like ma non li ha tolti davvero: non compare più il numero di persone che cuoricinano una foto, e tuttavia compaiono, elencati in liste da aprire e scorrere, tutti gli utenti che lo hanno fatto. Non è neppure detto che sarà così per sempre: è un esperimento che, ha detto il capo della Public Policy Emea di Instagram, Tara Hopkins, “Servirà ad aiutare le persone a porre l’attenzione su foto e video condivisi e non su quanti like ricevono” – suona un po’ come quel “Fai sentire la tua voce” che campaggia sulla home page di Rousseau, no?
Che dedurre l’influenza degli influencer dai like che ricevono e dal numero di follower che hanno sia ingenuo lo cominciano a capire i grandi brand e pure le piccole aziende, le quali – lo segnalava Francesca Milano di recente sul Sole24Ore – stanno attrezzandosi per monitorarne il seguito, cioè verificare che quei seguaci siano veri o finti. Fare numero non serve più a niente non soltanto perché è ormai arcinoto che moltissimi influencer comprano seguaci, cosa che rende parte del loro engagement nulla, ma pure perché comincia a registrarsi una specie di stanchezza degli utenti: un’indagine di Mobile Marketer, che la scorsa estate riportava Simone Cosimi su la Repubblica, rivela che, nel primo trimestre del 2019, i contenuti sponsorizzati che compaiono nella timeline di Instagram vengono visualizzati sempre meno (da un engagement del 4 per cento, negli ultimi tre anni sono passati ad averne uno del 2,4 per cento). Le aziende torneranno a investire nella pubblicità tradizionale o, prima ancora, saranno gli influencer a convertircisi, o addirittura sarà la pubblicità tradizionale a disintermediare?
Mettete governo al posto di pubblicità tradizionale, parlamentari al posto di influencer, elettori al posto di aziende e avete all’incirca la stessa partita che si gioca (s’è giocata?) nel Cinque Stelle. Così come su Instagram, anche su Rousseau esistono iscritti a cui non corrispondono persone, ma pixel. A settembre scorso, è venuto fuori che Francesco Mennella, aspirante onorevole di Marcianise (vicino Caserta, la città di Speranza, rapper collega di Pericolo, che canta “meglio vendere la droga che comprare views), alle parlamentari del 2018 s’è creato una rete di sostenitori finti, regolarmente iscritti a Rousseau, che sostenessero la sua candidatura.
Ad aprile, il Garante della Privacy ha multato la piattaforma per aver “esposto i risultati delle votazioni ad accessi ed elaborazioni di vario tipo”, in sostanza per aver reso manipolabile il voto espresso dagli iscritti (quelli veri, quelli che non sono caratteri captcha, l’entità fantasmatica che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo dovuto dimostrare a un computer di non essere). Non che questo abbia impedito alla nuova App del Pd di rifarsi a Rousseau, persino superandolo – e infatti Casaleggio jr, quando l’App è stata annunciata e descritta, s’è complimentato con gli ex nemici. L’elogio del consenso popolare che nasce da meccaniche divine è sparito dalla retorica grillina non appena i sondaggi hanno iniziato a mostrare che non era tutto stelle quello che volevano gli italiani. Allo stesso modo, Instagram ha virato verso il contenuto a scapito dei numeri non appena nei numeri sono diminuiti gli zeri.
I social network s’affannano a levarci dalla testa che siamo tutti spiati e spiabili, e il Cinque Stelle s’affanna a non lasciare traccia, per effetto della mitigazione della lingua, e del lavoro a cui Conte ha richiamato tutti
Molti di voi, specie se maschi, non si sono mai accorti che Instagram dava la possibilità, fino a pochi giorni fa, di visualizzare tutte le attività dei porpri utenti. È stato possibile per mesi, anzi per anni, cari signori, vedere sotto quali foto porche lasciavate una faccina sbavante, quante volte andavate a cuoricinare il profilo delle vostre ex, cosa scrivevate a Miriam Leone e cos’altro a Valentina Nappi, chi seguivate e quando cominciavate a farlo. Voi a cena ci dicevate di guardare, in una donna, le mani (dopo il cervello, naturalmente) e noi tornavamo a casa e in mezz’ora di scorrimento veloce delle vostre attività su Instagram sapevamo perfettamente che la prima cosa che guardate, in una femmina, è il culo, e sapevamo anche quale tipo di culo, e vestito o svestito come, sapevamo persino se era vero o no che con la vostra ex non avevate alcun contatto. Pochi giorni fa, questa finestra pubblica sul cassetto privato dei nostri cuoricini, è stata chiusa. Stare sui social network non deve più significare ostendere i propri gusti, neanche incidentalmente.
Prima del Conte bis, quando i Cinque Stelle cominciavano l’arduo cammino verso la presentabilità, inciampando sempre, ciò da cui si difendevano continuamente erano le deduzioni affrettate su chi fossero, che ricavavamo dal modo in cui apparivano, comunicavano, si fotografavano, si esprimevano, e da cosa preferivano, e da chi frequentavano, e da cosa ascoltavano – le coccole tra Di Maio e Fedez su Instagram, in pieno Conte gialloverde, sono valse più di molti retroscena politici. I social network s’affannano a levarci dalla testa che siamo tutti spiati e spiabili, e il Cinque Stelle s’affanna a non lasciare traccia, per effetto della mitigazione della lingua, e del lavoro a cui Conte ha richiamato tutti, nel discorso inaugurale del suo secondo governo: ricostruire, rimettere insieme quello che lo “scetticismo disgregatore” aveva fatto a pezzi.
Di Maio ha detto che il Cinque Stelle farà da ago della bilancia dei prossimi governi. Sembra ieri (perché era ieri) che il Movimento voleva, invece, essere la cuspide della freccia che avrebbe ferito mortalmente il cuore marcio del Palazzo. Si potrà studiare all’università per diventare influencer e addio alla pesca dal basso, al successo costruito sul niente, all’università della vita, all’idea che dalle accademie non nasca niente e dal niente nascano i fiori. Di Maio studia inglese e lo fa dire ai giornali dalla sua fidanzata. Il ministero dell’istruzione, del resto, lo guida un grillino.
Tout se tient.