Architettura dell’animaIl colibrì di Veronesi è la metafora di un’esistenza diversa da tutte le altre. In breve, la nostra

Il nuovo romanzo dello scrittore ruota intorno al personaggio di Marco Carrera, segnato da una malattia che gli rallenta la crescita. La sua vita, costellata di grandi amori ed eventi tragici, è caratterizzata da una lotta strenua per la sopravvivenza

Marco Delogu

Marco Carrera, il protagonista del nuovo romanzo di Sandro Veronesi, è il colibrì. La sua è una vita di continue sospensioni ma anche di coincidenze fatali, di perdite atroci e amori assoluti. Non precipita mai fino in fondo: il suo è un movimento incessante per rimanere fermo, saldo, e quando questo non è possibile, per trovare il punto d’arresto della caduta – perché sopravvivere non significhi vivere di meno. Intorno a lui, Veronesi costruisce altri personaggi indimenticabili, che abitano un’architettura romanzesca perfetta. Un mondo intero, in un tempo liquido che si estende dai primi anni settanta fino a un cupo futuro prossimo, quando all’improvviso splenderà il frutto della resilienza di Marco Carrera: è una bambina, si chiama Miraijin, e sarà l’uomo nuovo.

Pubblichiamo un estratto del nuovo romanzo di Sandro Veronesi, Il colibrì, edito da La Nave di Teseo

Di crescita e forma (1973-74)

Una sera, nella casa di piazza Savonarola, Marco, Irene e Giacomo Carrera udirono i loro genitori litigare. Non succedeva mai che litigassero apertamente: di solito lo facevano di nascosto, bisbigliando, per non farsi sentire dai figli, col risultato che li sentiva soltanto Irene, poiché Irene li spiava. Per Marco e Giacomo fu la prima volta. L’oggetto del contendere era Marco ma lui e suo fratello non se ne resero conto: solo Irene sapeva, perché aveva seguito la lite fin dall’inizio, mentre loro due l’avevano raggiunta dietro la porta della camera della madre solo quando erano cominciati gli urli. Il fatto è che Marco non era cresciuto regolarmente: fin dal primo anno d’età il suo sviluppo fisico era rimasto schiacciato sui centili più bassi, e dai tre anni in poi era proprio uscito dai diagrammi. Era tuttavia sempre stato molto bello e proporzionato, cosa che secondo Letizia segnalava un preciso intento della natura nei suoi confronti – di staccarlo dal mucchio, differenziarlo, per mettere in chiaro che gli aveva assegnato doni molto rari. L’armonia, secondo lei, che quel bambino aveva sempre incarnato – minuto, d’accordo, ma pur sempre luminoso, aggraziato e anche, per quanto fosse un po’ forzato dirlo di un bambino, virile – era evidentemente connaturata con un ritmo di crescita completamente diverso, e infatti anche i denti li aveva cambiati molto tardi. Non c’era da preoccuparsi. Del resto, non appena questo deficit era apparso evidente, lei aveva coniato per il suo bambino il più rassicurante dei soprannomi, colibrì, per rimarcare che, insieme alla piccolezza, in comune con quel grazioso uccellino Marco aveva anche la bellezza, per l’appunto, e la velocità: fisica – notevole, in effetti –, che gli tornava buona negli sport; e mentale – asserita, questa, più che altro – nella scuola e nella vita sociale. Perciò aveva continuato a ripetere sempre lo stesso mantra, anno dopo anno: non c’era da preoccuparsi, non c’era da preoccuparsi, non c’era da preoccuparsi. Probo, invece, si era preoccupato subito. Finché Marco era bambino si era però sforzato di credere alle parole rassicuranti di sua moglie, ma quando l’adolescenza aveva cominciato ad accennarsi senza che il corpo di suo figlio manifestasse l’intenzione di volersi sviluppare secondo la norma, si era sentito colpevole.

Come avevano potuto, loro due, lasciar fare alla natura? Era una malattia, altro che colibrì, come potevano essere tanto folli da non preoccuparsi? Cosa non funzionava in Marco? Aveva cominciato a interrogare la scienza, prima in generale, senza tirare in ballo il ragazzo – ma poi, quando ebbe compiuto i quattordici anni, per Probo divenne veramente insopportabile vederlo appollaiato su quella Vespina come un beduino sul cammello, e lo coinvolse. Il risultato fu una serie di consulti, di esami e di accertamenti diagnostici, al termine della quale fu stabilito che Marco soffriva di una forma di ipoevolutismo staturale (grazie tante, questo si vedeva), moderato e non grave (e meno male, ma si vedeva anche questo), dovuto a insufficiente produzione di ormone della crescita. Il problema era che a quel tempo la cura non esisteva: esistevano dei protocolli sperimentali, ma erano generalmente circoscritti ai casi di ipoevolutismo grave, cioè il nanismo. Solo uno specialista, tra i tanti consultati, un pediatra endocrinologo di Milano di nome Vavassori, aveva dichiarato di poterli aiutare, grazie a un programma che stava portando avanti da qualche anno con risultati – asserì – molto incoraggianti. Da qui la lite. Probo comunicò a Letizia di avere intenzione di inserire Marco in quel programma, Letizia replicò che si trattava di una follia, Probo ribatté che la follia era stata lasciar andare le cose per conto loro per tutti quegli anni, Letizia insistette con la faccenda dell’armonia e del colibrì – e fin qui avevano discusso a voce bassa, come al solito, e solo Irene li aveva uditi.

La lite entrò in una fase del tutto nuova quando Letizia, per rafforzare la propria tesi circa la necessità di non interferire con la natura, menzionò un libro, anzi non un libro ma il libro, il feticcio della sua generazione di architetti, o perlomeno di quelli con cui faceva comunella, vale a dire i più intelligenti e internazionali, dato che andava letto in inglese non essendo nemmeno mai stato tradotto in italiano: On Growth and Form, di D’Arcy Wentworth Thompson. A quel punto un grido belluino scosse la grande casa di piazza Savonarola, generalmente silenziosa, giungendo, nitido e incongruo, fino alle orecchie dei due fratelli che stavano guardando la televisione: “devi infilartelo su per il culo, thompson, hai capitooo?!!?” Da lì in poi il litigio era andato avanti come una controversia accademica, gridata però a tutta voce e infarcita di insulti: i due fratelli non capivano, Irene ghignava e non spiegava. Letizia dette del povero stronzo a Probo, Probo replicò dicendo che quel libro del cazzo lei lo citava ma non l’aveva nemmeno letto, così come non l’aveva letto nessuno dei professori dei suoi coglioni che lo menzionavano a ogni due per tre; Letizia allora si trovò costretta a riassumere in parole comprensibili da un mentecatto il senso del capitolo intitolato Magnitude, nel quale si dimostra, per l’appunto, matematicamente, che in natura forma e sviluppo sono legati da un’intrinseca e indissolubile legge armonica, e Probo le dette della cialtrona, dato che citava sempre quel capitolo, cioè il primo, perché era l’unico che avesse letto; e così via.

La lite durò a lungo, spingendosi molto lontano dalla scintilla che l’aveva generata – investendo, per parte di lei, concetti che un ingegnere fallito non poteva nemmeno sognarsi di comprendere, tipo il mandala junghiano e l’arte-terapia steineriana, e per parte di lui reiterando sempre lo stesso invito, cioè quello di infilare mandala e arte-terapia e Jung e Steiner nello stesso orifizio destinato poco prima a On Growth and Form. Ancora più lontano: Letizia era stufa, stufa marcia, non ce la faceva più. E di cosa cazzo era stufa? Della fatica che doveva fare per sopportare un coglione come lui. E sapesse lei, allora, quanto si era sfrantumato le palle lui delle sue stronzate. Ma vaffanculo. Ma vaffanculo te. I due ragazzi si preoccuparono: sembrava davvero che i loro genitori stessero separandosi. Ma Irene, invece di perder tempo a preoccuparsi, agì: “Cosa cazzo vi prende?” gridò, bussando alla loro porta, “Fatela finita!” I suoi fratelli scapparono immediatamente in salotto, ma Irene tenne la posizione e rimase lì, alla porta, per affrontarli. Era maggiorenne, ormai: per come vedeva le cose, nessuno avrebbe dovuto andarsene da quella casa prima che lo facesse lei – dunque, niente separazioni. Sua madre accapò alla porta, si scusò, seguita da suo padre, che si scusò a sua volta. Irene li guardò con sdegno, disse solo che fortunatamente Marco non aveva capito qual era il motivo della lite, e tanto bastò per determinare (questo si può dirlo solo col senno di poi, però si può dirlo) il futuro di almeno tre membri della famiglia, se non di quattro, se non di tutti e cinque: quello dei suoi genitori stessi e quello di Marco, di sicuro. Accadde infatti che Probo e Letizia, sconvolti per esser stati così cazziati dalla loro figlia, si sentirono talmente in colpa, talmente mortificati ed egoisti, che rammendarono immediatamente lo strappo generato da quella lite nella rete tessuta negli anni con tanta fatica e tanta ipocrisia intorno al loro nido.

Vi era infatti qualcosa di strenuo, nel loro legame, e di immodificabile, che essi nemmeno riuscivano a spiegare: né Letizia alla sua analista, durante le tumultuose sedute che da anni s’incentravano proprio sulla sua incapacità di separarsi da Probo, né Probo a se stesso, nelle sue lunghe solitarie giornate al tavolo da lavoro, la mano ferma, l’occhio aguzzo, il fischio al naso del fumatore e la mente che vagava lontano fino ad abbracciare tutta intera la propria sconfinata infelicità. Perché rimanevano insieme? Perché, se al referendum di pochi mesi prima avevano entrambi convintamente votato per il divorzio? Perché, se ormai non si sopportavano più? Perché? Paura, verrebbe da pensare – ma paura di che? Di sicuro la paura c’era, ma non era la stessa paura – e dunque anche quella li separava. C’era qualcos’altro, qualcosa di ignoto e indicibile che li teneva insieme – un unico misterioso punto di contatto che manteneva attiva la promessa che si erano fatti quasi vent’anni prima, quando sbocciavan le viole, come diceva una canzone di Fabrizio De André uscita da poco – da poco rispetto alla lite, non alla promessa, che era di molto precedente, anche se era esattamente la stessa: “Non ci lasceremo mai, mai, e poi mai.” Del resto, anche quella canzone che parlava di loro li separava, come tutto, e come tutto, separando loro due sembrava smembrare tutta la famiglia, poiché: Letizia e Marco l’ascoltavano (ma separatamente, con dischi e su giradischi separati, e senza nemmeno sapere l’uno dell’altra); Giacomo e Irene no (uno perché era troppo piccolo, l’altra perché la trovava stucchevole); e Probo ne ignorava bellamente l’esistenza. Ma niente: loro due restavano insieme, la famiglia non si smembrava, e il nodo sempre più lento non si scioglieva. Il brano s’intitolava Canzone dell’amore perduto, ma il loro amore non si perdeva mai; finiva con le parole “per un amore nuovo”, ma un amore nuovo per loro non ci fu mai. Di sicuro, quell’intervento di Irene durante la lite tra i suoi genitori li rimise insieme. Di sicuro, come si è detto, determinò il loro futuro e quello di Marco. Perché da lì in poi prevalse definitivamente la prudenza, prevalse la pietà, prevalse lo sforzo di negare il bene a se stessi per il cosiddetto, e supposto, bene dei figli. Non che potesse funzionare, Letizia e Probo non mancavano dell’intelligenza per capirlo: l’infelicità rimane tale anche se diventa una scelta, e se da un certo giorno in poi essa è l’unico vero prodotto di un matrimonio, è quella che ai figli si trasmette.

Però, proprio l’intelligenza li protesse dall’illusione che l’infelicità fosse un accidente che capitava loro tra capo e collo, poiché a guardare nel proprio passato con un minimo di onestà entrambi erano costretti a riconoscere che di felicità non c’era mai stata nemmeno l’ombra: erano sempre stati infelici, anche prima di conoscersi, l’infelicità loro due l’avevano sempre prodotta, autonomamente, come certi organismi fanno col colesterolo, e l’unico breve intervallo di felicità che avessero conosciuto nella propria vita l’avevano vissuto insieme, all’inizio della loro unione, quando si erano innamorati e sposati e avevano fatto figli. Smisero di colpo di litigare, quella sera, e rimasero insieme a non sopportarsi, a ferirsi e a litigare sottovoce per il resto dei loro giorni. Riguardo a Marco, si sforzarono di venirsi incontro. Letizia lavorò duramente per rinunciare a quello che la sua analista chiamava il mito del colibrì (il figlio maschio che rimaneva piccolo, la sua grazia e la sua bellezza che rimanevano inaccessibili a qualunque donna che non fosse lei ecc.), e accettare il punto di vista di Probo, secondo il quale bisognava fare tutto ciò che fosse scientificamente possibile per aiutarlo a crescere – sacrificando su quell’altare le lucenti convinzioni in materia di crescita e forma maturate con la lettura (integrale, checché dicesse Probo) di D’Arcy Wentworth Thompson. Probo procurò di incassare questa cedola non già come un’affermazione personale, che l’avrebbe reso ancora più solo, bensì come un’insperata occasione di condividere di nuovo qualcosa d’importante con sua moglie, che malgrado tutto lui amava ancora. Perciò condusse con sé Letizia a Milano dal dottor Vavassori, affinché lo conoscesse e si facesse un’idea della sua serietà, le diede mandato di verificare autonomamente la solidità del percorso terapeutico che egli prospettava e si impegnò a tenere conto del suo giudizio nel maturare la decisione definitiva. Letizia ripeté da sola tutta la ricerca che Probo – anche lui da solo – aveva effettuato nei mesi precedenti, e si rese conto che il protocollo proposto dallo specialista di Milano era effettivamente l’unica possibilità seria che la comunità scientifica del loro tempo fosse in grado di offrire per aiutare Marco a crescere. Non fu come averla fatta insieme, ma perlomeno, per una volta dopo tanto tempo, si ritrovarono a fare la stessa strada.

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