«Facciamo tutto insieme»Attenzione, esiste anche un populismo buono

Il comico Zelensky ha creato in tv il presidente ideale e poi lo ha fatto eleggere, ma non parla di immigrati né di complotti né di invasioni, nonostante il suo paese sia stato occupato dai russi. Si rivolge alla testa e al cuore, non alla pancia degli elettori

GENYA SAVILOV / AFP

Quattordici ore ininterrotte di conferenza stampa. Fidel Castro, Vladimir Putin, Hugo Chavez e Alexandr Lukashenko mangiano la polvere, e il Guinness dei primati consegna a Vladimir Zelensky il certificato del record della conferenza stampa più lunga della storia, che il presidente ucraino aggiunge agli altri numeri strabilianti della sua carriera politica: il 73% dei voti alle presidenziali dell’aprile scorso, una maggioranza del 60% conquistata dal suo partito alla Rada e il 73% dell’approvazione degli elettori dopo sei mesi di presidenza. Tutto questo senza trucchi: l’Ucraina non è la Russia, come amano sottolineare a Kiev, è una democrazia sui cui processi elettorali e stampa libera le organizzazioni internazionali non hanno nulla da ridire.

Il Ze!presidente – che nei media occidentali viene ancora spesso raccontato come una sorta di scherzo della politica, un comico eletto presidente e diventato protagonista di una telefonata imbarazzante con Donald Trump – è un fenomeno politico senza precedenti, destinato a finire nei manuali della politologia. La sua carriera, dal cabaret studentesco di provincia a capo dello Stato più grande d’Europa, grazie a una serie televisiva nella quale ha interpretato il presidente per poi diventarlo nella realtà, merita un biopic da Oscar. Uscendo dalla fiction, in sei mesi della sua presidenza il Pil è cresciuto, la moneta nazionale si è rafforzata, la tradizionale divisione Est-Ovest del Paese è stata dimenticata, 35 ostaggi ucraini sono tornati a casa dalle prigioni russe, il Parlamento ha approvato in regime turbo riforme apparentemente impossibili come l’introduzione del mercato dei terreni agricoli, chieste da anni dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario, e il negoziato sulla pace nel Donbass è stato scongelato. Un dettaglio importante: Vladimir Zelensky è un populista.

La sua “maratona stampa” di 14 ore è un buon esempio della costruzione della sua immagine: si è tenuta in una food court di Kiev, tra sushi e hamburger gastronomici che venivano serviti a centinaia di giornalisti che interrogavano il presidente, mentre al piano inferiore i clienti continuavano a fare la spesa. Trasmessa in diretta da tv e social, doveva dare l’idea di un presidente comune mortale, seduto senza cravatta al tavolo con i cronisti a mangiare pizzette, ma nello stesso tempo di un presidente fighetto che invece di andare ai mercatini a fingere di essere un uomo del popolo – come nella sua serie, dove andava in ufficio in bici o in autobus – frequenta posti trendy. Da bravo populista, ha attaccato la kasta, denigrato il suo predecessore, minacciato gli oligarchi, promesso manette ai corrotti, licenziamenti ai ministri e deputati inadempienti e miglioramento del tenore di vita agli elettori. Si è lamentato dei regolamenti parlamentari e giuridici che impediscono alla sua rivoluzione di essere ancora più “turbo”. Ha punzecchiato i giornalisti.

Dal suo cocktail di propaganda però mancavano totalmente gli ingredienti classici del populismo. In un Paese parte del territorio del quale è stato invaso, non ha mai parlato di “invasione”. Ha invocato la tutela delle minoranze, linguistiche, etniche e religiose. Non ha mai menzionato la madonna né tirato fuori un rosario, dichiarando di volersi tenere laicamente distante da tutte le religioni. Non ha evocato complotti inesistenti. Non ha parlato di vaccini, Ufo, deep state, Bilderberg, scie chimiche, immigrati, protezionismo, radici e radioso passato, ma di investimenti esteri, di stimoli fiscali per sanità, istruzione, ambiente e innovazione, di apertura dei mercati, di riforma della giustizia, di Europa e di futuro, ha ordinato di “lasciare in pace” gli omosessuali che “sono liberi di fare quello che vogliono” e menzionato la parità gender.

L’attore ha fatto il mestiere del politico più dei politici: piuttosto che spiegare perché cambiare è impossibile ha proposto (o interpretato) una visione, una pulsione idealista

Zelensky è il populista supremo, un’evoluzione senza precedenti della specie politica. Non è un politico che utilizza spin doctor, esperti di pubbliche relazioni e addetti stampa per cucirsi addosso un’immagine. È un attore e produttore che prima ha creato l’immagine del presidente ideale per il piccolo schermo e poi l’ha fatta eleggere capo dello Stato. È lo spin al cubo. La sua storia di presidente vero continua a mischiarsi con quella del presidente della fiction, trasformata in reality show, e per i 100 giorni della sua presidenza si è fatto intervistare non dai giornalisti – con i quali non ha un buon rapporto perché, in perfetto stile populista, privilegia una comunicazione diretta e senza intermediari tra il leader e il suo pubblico – ma dall’attore Stanislav Boklan, che nella serie “Servo del popolo” interpretava il primo ministro che conduceva il presidente neofita nei gironi del potere.

Il montaggio ha alternato frammenti di conversazione a quelli del film, in quello che l’esperta di psicologia politica Svetlana Chunikhina chiama sul quotidiano online Liga.net “effetto della realtà aumentata”. Tutte le regole della politica tradizionale sono state rovesciate, e la politica è diventata definitivamente spettacolo, con l’inner circle del presidente composto dai produttori e autori del suo studio di produzione Kvartal 95, l’impero dell’intrattenimento fondato da Zelensky. La comunicazione non è più un braccio del governo, è il core business della Ze!presidenza, che ancora prima di leggi e delibere produce narrative, e non a caso anche nel discutere del ritorno all’Ucraina del Donbass occupato Zelensky mette in primo piano non gli aspetti militari o economici, ma la conquista del cuore e della mente degli elettori. Le sue mosse verso la pace servono a “far vedere a tutti che dove arriviamo noi la vita della gente migliora” e si lamenta che i russi – che la guerra mediatica non l’hanno mai sottovalutata – oscurano nei territori occupati le emittenti ucraine. Gli unici errori della sua amministrazione che ammette pubblicamente sono errori di comunicazione.

«Faremo vedere» è la parola chiave, e anche se Zelensky dice di aver smesso ormai di essere un attore, è un professionista della manipolazione del pubblico, il principale showman e il newsmaker numero uno, il più grande spettacolo dell’Ucraina. La prospettiva di una presidenza sceneggiata come una fiction di Netflix è inquietante, e i rischi di un presidente abituato a piacere al pubblico sono evidenti, primo tra tutti la sostituzione di una politica “reale” con lo spettacolo, che cambia in base allo share dell’audience. Il suo partito di neofiti – l’assenza di una precedente esperienza politica è il requisito essenziale per diventare “servi del popolo” – ha molti connotati che lo apparentano al M5S, e durante la sua maratona con la stampa Zelensky si è fatto scappare un “se cominciano a mangiarsi fra di loro tra un anno li sciolgo”. Il mondo in questo momento è pieno di politici che hanno scalato il potere grazie a strumenti di comunicazione alternativi, usando le narrative al posto del dialogo convenzionale con gli elettori. Ma l’esperienza Zelensky va guardata e studiata, non solo perché è un pioniere del nuovo genere. Nel mondo globale e mediatico la politica 4.0 non sarà mai più quella di prima, e per quanto l’ondata populista prima o poi si affievolirà – sia grazie alle misure legali di contenimento delle fake news e dei discorsi di odio che grazie agli anticorpi contro l’epidemia che gli elettori inevitabilmente produrranno – aspettarsi il ritorno a una politica incravattata, gerarchica e aulica è impossibile. E Zelensky è un esempio di come le tecnologie del populismo – dall’uso dei social ai big data, dalla semplificazione del messaggio alla manipolazione degli stereotipi – possono venire utilizzati anche in un contesto positivo.

Barack Obama e Greta Thunberg sono due esempi di metodologie “populiste” utilizzate per promuovere valori di apertura e progresso e non di chiusura e xenofobia

Il problema non sono le tecniche, ma il messaggio. Barack Obama e Greta Thunberg sono due esempi di metodologie “populiste” utilizzate per promuovere valori di apertura e progresso e non di chiusura e xenofobia. Il procedimento Zelensky è stato l’opposto di quello di Trump e Salvini. Alla domanda su quale ideologia preferisce, il presidente ucraino risponde: “Una sola: tutto quello che divide il Paese va evitato”. Invece di estremizzare l’opinione pubblica, sdoganando discorsi emarginati nel “locker room talk”, come lo chiama Trump, nei bar e nelle cucine, nella “pancia”, espandendo i limiti del lecito fino a fagocitare l’elettore moderato, il comico ucraino rispolvera la vecchia regola che le elezioni si vincono al centro. Evita accuratamente i discorsi che possono irritare i due estremi dell’elettorato ucraino – i nazionalisti di Leopoli e i nostalgici sovietici di Donetsk – offrendo al resto del Paese una proposta buonista di futuro, crescita e pace, raccontata con un buon senso da zia Pina (“Sì, ho telefonato io a Putin, perché in media ogni due giorni un ucraino viene ucciso nel Donbass, e quindi non posso aspettare nemmeno due giorni”). Le proposte più follemente populiste della campagna elettorale sono state discretamente archiviate a favore di un’immagine più istituzionale e rassicurante, e che non fa ridere. Invece di alimentare paure, divisioni e frustrazioni produce – anche grazie al suo film – ottimismo e fiducia nel futuro: Zrobimo ze razom, facciamolo tutti insieme, è il Yes we can ucraino, un ritornello ormai onnipresente. Invece di parlare alla pancia si rivolge al cuore, e alla testa, cercando di smorzare gli estremismi, far convergere posizioni opposte su un buon senso pragmatico condivisibile da una maggioranza il più possibile trasversale. Una strategia di marketing che potrebbe rivelarsi alla lunga molto più promettente delle campagne di terrorismo politico: un governo non è una società commerciale, non si può scappare con i soldi dei clienti, lasciandosi dietro un terreno bruciato.

Ovviamente, i metodi e le tecnologie non sono tutto. Ci vogliono circostanze, contesti e maturazioni che hanno i loro tempi: cinque anni fa né l’opinione pubblica ucraina, né quella russa avrebbero accettato negoziati con Putin per restituire il Donbass a Kiev. Populisticamente parlando, l’Ucraina però sarebbe un terreno molto più fertile per un sovranismo ferito: il Paese più povero d’Europa, in guerra con un vicino come la Russia, con un territorio annesso e un altro occupato militarmente, un milione di profughi, una crisi demografica e quasi un quinto della popolazione costretto a emigrare in cerca di guadagni, trattato come una pedina nel gioco delle grandi potenze. La domanda se Zelensky è riuscito a invertire l’estremizzazione dell’opinione pubblica prodotta inevitabilmente dalla guerra proprio grazie alle sue tecniche populiste resta aperta. Svetlana Churnikhina è convinta di sì: «Il gioco, la performance e l’umorismo si sono rivelati tecnologie politiche incredibilmente potenti, che permettono di dire la verità senza dirla e di vivere il dramma senza sperimentarlo». Un talento, quello dell’attore, che «permette al presidente di giocare alla pari con i mastodonti della politica», nonostante l’inesperienza. E forse è stato grazie all’inesperienza che il Ze! Team, invece di manovrare nello spazio predefinito dai sondaggi, ha creato una maggioranza che prima non esisteva. Invece di avere paura di scontentare e perdere le proprie costituency, Zelensky ha parlato a quella maggioranza silenziosa che può essere il bacino della moderazione come della paranoia del sovranismo. L’attore ha fatto il mestiere del politico più dei politici: piuttosto che spiegare perché cambiare è impossibile ha proposto (o interpretato) una visione, una pulsione idealista da I have a dream (“Il Paese del sogno” è un altro slogan elettorale), facendo provare ai suoi elettori quella qualità trascinante che rende la vera politica affine al grande cinema, e che si è persa nelle campagne elettorali fatte con il bilancino dei sondaggi e del manuale Cencelli. Se il sogno ucraino naufragherà in un disastro, o diventerà un laboratorio del populismo dal volto umano tutto da studiare, lo vedremo nella prossima stagione.

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