La cattiva educazione“Baby 2” è perfetto, perché ci fa capire che abbiamo educato i nostri figli in modo folle

La seconda stagione della serie Netflix sulle prostitute adolescenti dei Parioli coglie il segno più della prima, perché ci restituisce una realtà plausibile e orrorifica

In Gomorra il punto di visione privilegiato si colloca un metro al di sopra della parte posteriore di una macchina in corsa per le strade di Napoli. È l’osservatorio-chiave della dinamica criminale che conduce la città per mano, verso l’obbiettivo comune: la dominazione. In Baby, e ancor di più in Baby 2, che ha perfezionato il campionario descrittivo, la sequenza-simbolo, nella sua ricorrenza, è il corridoio del liceo privato Collodi – rivisitazione, anche nelle divise, dello stile romano Villa Flaminia, un’élite raggiungibile con qualche sacrificio in più.

Da lì, da quel tunnel dritto e grigio popolato di figurine d’ornamento, si parte nelle avventure degli eroi della serie ispirata alla vicenda delle minorenni-squillo dei Parioli, che nella realtà vivevano una realtà più dimessa e problematica. Baby rispunta per la seconda stagione non appena si è consumato il succulento festino televisivo di Euphoria, la folgorante produzione americana ideata da Sam Levinson, che ha riaggiornato il discorso sui turbamenti della nuova gioventù d’oltreoceano, stabilendo nuovi canoni estetici di una serialità che azzardi la narrazione del complesso mondo teenageriale, elevando l’asticella della qualità, dell’audacia, della contaminazione di linguaggi, fin dove non s’era mai visto. Si esce dalla sbornia di quella visione feticistica, virtuosistica e onnivora, dentro cui ci s’imbatte in tutto, dal manga a Scream, da Breakfast Club a Thriller, e si rientra nell’abbordabile conforto delle pareti domestiche, guardando Baby – e saltando quel disastro ormai insopportabile di Thirteen, arrivato alla terza stagione e malinconicamente trasformato nell’interminabile sermone di un’agenzia per il recupero dei disturbi giovanili. Ma invece che piombare nel prevedibile malcontento del “perché non facciamo le cose come gli americani?”, ecco che la visione risulta più congrua e incalzante del previsto.

Baby 2 è la messinscena attendibile e un racconto incisivo nell’esplorare un mondo labirintico come quello della gioventù borghese metropolitana

Il motivo è semplice e diretto: Baby racconta brutte storie squallide in cui incappano minorenni della Roma bene, confusi, agitati e irrequieti, senza regalare niente né a destra né a sinistra (“è solo un gioco” dice una di loro), offrendone una versione melò che regga il ritmo di un telefilm d’intrattenimento e privilegiando l’utilizzo dei personaggi come stereotipi semplici, che a ogni apparizione ripropongono le poche prerogative distintive che gli sceneggiatori hanno attribuito loro. Cosa questa che è una caratteristica ricorrente della serialità e in particolare di quella giovanile – non ne sono avulsi neanche i due esempi Usa di cui sopra – perché la coralità è lo standard di questi prodotti e dove a muoversi sono una moltitudine di caratteri, è normale che le singole identità vengano definite reiterandone i connotati dominanti. Ciò che invece sorprende positivamente, inoltrandosi nei 6 episodi di Baby 2 – che ha una diversa stabilità di sviluppo rispetto alle incertezze della prima stagione – è la messinscena attendibile e un racconto incisivo nell’esplorare un mondo labirintico come quello della gioventù borghese metropolitana dei nostri tempi, corrispettivo contemporaneo dell’oggetto del maggior numero d’indagini nell’ultimo mezzo secolo della nostra cinematografia. Il quadro è preoccupante: ragazzi fragili, dominati da sentimenti attutiti e spesso repressi, deboli, nervosi e imprevedibili nel profluvio delle ansie e insicurezze: i soldi, il successo, il riconoscimento, la legittimità e, di contro, la sfiga, la diversità, l’incapacità. In mezzo la terra di nessuno delle trasgressioni, dove si vince la noia, ma anche dove si cercano opportunità, provocando gli schemi precostituiti del destino.

Nella loro schematicità, e grazie a un casting non banale (Benedetta Porcaroli e Alice Pagano in testa), i ragazzi di Baby somigliano alla loro versione reale più di quanto si sospetterebbe a prima vista. Hanno la disinvoltura di praticare scelte assurde, come prostituirsi senza un vero motivo, hanno la spietatezza di non fare prigionieri per salvare se stessi, tradiscono e ricattano, sputtanano e denunciano, blandiscono e feriscono. Menefreghisti, amorali, e poi puntualmente sentimentali, somigliano al prodotto di una società che enuncia dogmi etici nello stesso momento in cui scende a patti con indecenze sociale, come abbiamo visto fare nel paese in cui viviamo.

Che si prostituiscano o no, è plausibile che così siano i nostri figli, per come li abbiamo educati, per i modelli che hanno visto e a cui si sono omologati

Tutti si muovono con un campo di visione breve e una perenne incertezza, perfino i più forti e disinvolti. Tutti possono cedere in qualsiasi momento, fare la cazzata, e poi pentirsi e disorientarsi. Eppure hanno un’energia dentro che li rende potenti, che attribuisce loro una momentanea immortalità, avvolti da uno squallido mondo adulto dolente, giaculatorio, in perenne odore di pentimento. Perciò, sebbene le peripezie di Baby a volte siano dimenticabili, gli sviluppi grossolani, le soluzioni un po’ rimediate, la visione non è tempo perso per come intuisce e restituisce un’aria dei tempi, un’atmosfera malata, un malcostume generale.

Che si prostituiscano o no, è plausibile che così siano i nostri figli, per come li abbiamo educati, per i modelli che hanno visto e a cui si sono omologati. Uno spettacolo che atterrisce, ma che chiama in causa. E nella chiamata in causa che risuona in questa serie, per intenzione degli autori o solo per il congiungersi della raffigurazione con qualcosa che conosciamo, s’intravede anche l’errore: abbiamo lasciato che una società, o buona parte di essa, legittimasse una graduatoria di valori folle, e con essa la percezione sbagliata del giusto e dello sbagliato, del vincente e del perdente. Perfino un telefilm facilmente denuncia il disastro. E induce cupe riflessioni. Che poi scanseremo, spegnendo lo smartphone e tornando alle impellenti missioni che ci attendono.

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